Come anticipavamo nelle conclusioni del precedente post ("Sesso giocondo"), assai più frequentemente di quanto si confessi, il sesso si esprime, anche nella nefanda tentazione del pos-sesso, laddove l’amore perde ogni spazio per esprimersi e si contorce sul sé inaridendolo, a volte persino annientandolo con varie forme di violenza psichica e fisica, e non necessariamente così manifesta da essere unanimemente condannabile.
Si tratta, di una vocazione che ha le sue radici nella più profonda tradizione dove era la donna ad essere posseduta ossia ad accogliere in sé il sesso maschile, ma che rimanda anche (delle volte le coincidenze…) all'essere invasa da spiriti demoniaci e per questo bruciata sul rogo, non dissimilmente dai tanti femminicidi che pervadono la cronaca quotidiana.
Tale riferimento, per quanto condannato, anche oggi non ha smesso di mostrare il suo tragico volto, nonostante il processo di liberazione individuale abbia dispiegato, anzitutto per la posseduta, la possibilità di affrancarsi dalle catene della gravidanza e del matrimonio, inaugurando, di fatto, l’opportunità di una scelta che il maschio possessore non sembra aver ancora davvero accettato e integrato.
Di questa mattanza, condotta nel luogo che ci illudiamo più sicuro, la nostra casa (dalle statistiche i delitti in famiglia, quantomeno in Italia, sono oggi più numerosi di quelli commessi dalle varie mafie nazionali), la dinamica del pos-sesso ha profonde responsabilità e con essa l’assenza di un’educazione al riconoscimento delle sue forme e alla loro gestione.
Fin da bambini veniamo educati secondo la logica del possesso, veicolata dalle relazioni che gli adulti intrattengono con le cose e le persone e, in primo luogo, con quella persona che è il di noi bambino. Bambino e genitori, infatti, sperimentano un rapporto ambivalente di possesso e dipendenza che è naturale e necessario allo sviluppo del neonato ma che, altrettanto necessariamente, deve trovare i modi e i tempi per affrancarsi dalla sua pericolosa voracità.
Il meccanismo psicologico sotteso che il bambino introita, risponde ad un inevitabile sillogismo che così traduce il significato dell’amore: «Io sono dei miei genitori, loro mi amano e la mia vita dipende da loro e dal loro amore; amare significa, dunque, possedere l’oggetto amato e fare in modo che questi mi sia dipendente».
La possessività, fa dunque il suo esordio nei primissimi anni di vita e si manifesta, in primo luogo, nel rapporto con la madre con cui, oltre alla dipendenza, il bambino sperimenta la difficoltà, o incapacità, a reggere le frustrazioni laddove la relazione con la madre sfugge all'esclusività, ma parimenti sperimenta (o dovrebbe sperimentare) le modalità per reggere tali frustrazioni e superarle.
Queste strategie di possesso e dipendenza che la specie umana ha escogitato per assicurare la crescita dei suoi esemplari, trovano oggi particolare risonanza di fronte, dicevamo, all'emancipazione femminile che, quantomeno nel rapporto con il partner, ha fatto saltare il banco delle millenarie certezze, rifiutando la dipendenza e negandosi al possesso.
Peccato però che, mentre il femminile rivendicava la sua legittima indipendenza, forse per non sfuggire totalmente all'imprinting dell’infanzia, amplificava, o almeno non riduceva, il suo rapporto di possesso nei confronti dei figli, impedendo che anche questi potessero compiere il loro necessario percorso di emancipazione dal rapporto genitoriale. Anzi, per questa e tutta una serie di complesse ragioni socioculturali, mai come oggi genitori e figli vivono una relazione di possesso e dipendenza da cui fanno sempre più fatica, e spesso non riescono, a svincolarsi.
Così, non solo la dinamica del pos-sesso continua a perpetuarsi, ma rischia, per molti adulti, di non trovare più soggetti capaci di gratificarla, entrando in un cortocircuito frustrante in cui il nostro bisogno di amore sembra costantemente respinto, non perché l’Altro davvero non ci ama, ma perché, rifiutando dipendenza e possesso, nega l’unico modo che conosciamo di amare e essere amati.
Quando l'amore non è stato adeguatamente educato, anzitutto attraverso l’esplicito agire dei genitori, a viversi in primo luogo come promozione della libertà dell’Altro, anzi, direi di più: esplicitamente allenato a superare l’indispensabile ingombro psicologico della dipendenza che abbiamo vissuto da bambini, sperimentando, il prima possibile, forme adeguate di allontanamento e distacco genitoriale (a cominciare dall'allontanamento dal talamo nuziale che oggi sembra un topos che attraversa la gran parte delle coppie che si trovano a dividere il luogo della loro intimità con i figli ben oltre qualsiasi ragionevole età di quest’ultimi), allora rischia di non spezzare la catena logica consequenziale che lo vuole associato al possesso.
Il sesso come possesso, rischia allora di diventare un’arma per soggiogare l’Altro e non -appunto-, come più volte abbiamo rivendicato in questo blog, un gioco per liberarlo.
Come anticipavamo nelle conclusioni del precedente post ("Sesso giocondo"), assai più frequentemente di quanto si confessi, il sesso si esprime, anche nella nefanda tentazione del pos-sesso, laddove l’amore perde ogni spazio per esprimersi e si contorce sul sé inaridendolo, a volte persino annientandolo con varie forme di violenza psichica e fisica, e non necessariamente così manifesta da essere unanimemente condannabile.
Si tratta, di una vocazione che ha le sue radici nella più profonda tradizione dove era la donna ad essere posseduta ossia ad accogliere in sé il sesso maschile, ma che rimanda anche (delle volte le coincidenze…) all'essere invasa da spiriti demoniaci e per questo bruciata sul rogo, non dissimilmente dai tanti femminicidi che pervadono la cronaca quotidiana.
Tale riferimento, per quanto condannato, anche oggi non ha smesso di mostrare il suo tragico volto, nonostante il processo di liberazione individuale abbia dispiegato, anzitutto per la posseduta, la possibilità di affrancarsi dalle catene della gravidanza e del matrimonio, inaugurando, di fatto, l’opportunità di una scelta che il maschio possessore non sembra aver ancora davvero accettato e integrato.
Di questa mattanza, condotta nel luogo che ci illudiamo più sicuro, la nostra casa (dalle statistiche i delitti in famiglia, quantomeno in Italia, sono oggi più numerosi di quelli commessi dalle varie mafie nazionali), la dinamica del pos-sesso ha profonde responsabilità e con essa l’assenza di un’educazione al riconoscimento delle sue forme e alla loro gestione.
Fin da bambini veniamo educati secondo la logica del possesso, veicolata dalle relazioni che gli adulti intrattengono con le cose e le persone e, in primo luogo, con quella persona che è il di noi bambino. Bambino e genitori, infatti, sperimentano un rapporto ambivalente di possesso e dipendenza che è naturale e necessario allo sviluppo del neonato ma che, altrettanto necessariamente, deve trovare i modi e i tempi per affrancarsi dalla sua pericolosa voracità.
Il meccanismo psicologico sotteso che il bambino introita, risponde ad un inevitabile sillogismo che così traduce il significato dell’amore: «Io sono dei miei genitori, loro mi amano e la mia vita dipende da loro e dal loro amore; amare significa, dunque, possedere l’oggetto amato e fare in modo che questi mi sia dipendente».
La possessività, fa dunque il suo esordio nei primissimi anni di vita e si manifesta, in primo luogo, nel rapporto con la madre con cui, oltre alla dipendenza, il bambino sperimenta la difficoltà, o incapacità, a reggere le frustrazioni laddove la relazione con la madre sfugge all'esclusività, ma parimenti sperimenta (o dovrebbe sperimentare) le modalità per reggere tali frustrazioni e superarle.
Queste strategie di possesso e dipendenza che la specie umana ha escogitato per assicurare la crescita dei suoi esemplari, trovano oggi particolare risonanza di fronte, dicevamo, all'emancipazione femminile che, quantomeno nel rapporto con il partner, ha fatto saltare il banco delle millenarie certezze, rifiutando la dipendenza e negandosi al possesso.
Peccato però che, mentre il femminile rivendicava la sua legittima indipendenza, forse per non sfuggire totalmente all'imprinting dell’infanzia, amplificava, o almeno non riduceva, il suo rapporto di possesso nei confronti dei figli, impedendo che anche questi potessero compiere il loro necessario percorso di emancipazione dal rapporto genitoriale. Anzi, per questa e tutta una serie di complesse ragioni socioculturali, mai come oggi genitori e figli vivono una relazione di possesso e dipendenza da cui fanno sempre più fatica, e spesso non riescono, a svincolarsi.
Così, non solo la dinamica del pos-sesso continua a perpetuarsi, ma rischia, per molti adulti, di non trovare più soggetti capaci di gratificarla, entrando in un cortocircuito frustrante in cui il nostro bisogno di amore sembra costantemente respinto, non perché l’Altro davvero non ci ama, ma perché, rifiutando dipendenza e possesso, nega l’unico modo che conosciamo di amare e essere amati.
Quando l'amore non è stato adeguatamente educato, anzitutto attraverso l’esplicito agire dei genitori, a viversi in primo luogo come promozione della libertà dell’Altro, anzi, direi di più: esplicitamente allenato a superare l’indispensabile ingombro psicologico della dipendenza che abbiamo vissuto da bambini, sperimentando, il prima possibile, forme adeguate di allontanamento e distacco genitoriale (a cominciare dall'allontanamento dal talamo nuziale che oggi sembra un topos che attraversa la gran parte delle coppie che si trovano a dividere il luogo della loro intimità con i figli ben oltre qualsiasi ragionevole età di quest’ultimi), allora rischia di non spezzare la catena logica consequenziale che lo vuole associato al possesso.
Il sesso come possesso, rischia allora di diventare un’arma per soggiogare l’Altro e non -appunto-, come più volte abbiamo rivendicato in questo blog, un gioco per liberarlo.