La ricostruzione di un amore "diverso"


"La costruzione di un amore, spezza le vene delle mani, mescola il sangue col sudore se te ne rimane. La costruzione di un amore non ripaga del dolore, è come un altare di sabba in riva al mare..." (Ivano Fossati, 1978)... Figuriamoci la ricostruzione di un amore diverso... 

Eppure è questo, a mio avviso, il compito di ogni coppia che giunge alla fine dell'amore. Il compito di ogni relazione che, partita dall'amore, scopre che quel sentimento che spingeva indissolubilmente nelle braccia dell'Altro, ora si è affievolito, magari spento, ma non per questo deve essere rinnegato, abiurato, oltraggiato, ferito, a volte (ahinoi) addirittura ucciso.  

Certo, il percorso che spinge dalla consapevolezza dell'amore finito alla necessità di un nuovo amore, che proprio da quella fine può rinnovarsi, che proprio per quella fine può e deve rinnovarsi, diverso ma ugualmente vivo, non mortificante... certo, questo percorso, non è per nulla semplice. 

Compito utopico, senz'altro; che va contro tutti i luoghi comuni, i consigli degli amici e dei parenti, la subcultura dei rotocalchi e dei programmi televisivi, insomma: il mondo tutto, questo mondo tutto, che, quando un amore finisce, sembrerebbe restituire solo l'esperienza dello scontro, del "adesso ti faccio vedere io", della vendetta o, nel migliore dei casi, della rimozione.

Tuttavia, la mia esperienza, in tanti anni di supporto alle coppie in crisi, testimonia che la coppia di amanti che più amanti non sono, se adeguatamente accompagnata, correttamente armata di conoscenze e di pazienza, può vincere la sfida di rinnovare quell'amore perduto, accettando anzitutto di provare a sostare nel territorio dell'utopia. 

E poi, vada come vada, di nuovo insieme e separati, ma non sottratti, ma mai sottratti dal riconoscersi come parte di una medesima storia, di un medesimo cammino,, tanto più quanto più durante quel camino sono nati dei figli a testimoniarne il senso.

Affidandosi a questo tour operator del cuore, a questo esperto in viaggi impossibili, centinaia di coppie in questi anni hanno sperimentato che l'utopia è -invece- possibile e che è sempre salvifico lasciarsi trascinare su quell'isola che non c'è, dove gli amori alla fine dell'amore, possono trovare un approdo di rinnovato ben-essere, anzitutto riconoscendosi come entità di una storia comune che, per quanto a un bivio, li terrà uniti per sempre.



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"La costruzione di un amore, spezza le vene delle mani, mescola il sangue col sudore se te ne rimane. La costruzione di un amore non ripaga del dolore, è come un altare di sabba in riva al mare..." (Ivano Fossati, 1978)... Figuriamoci la ricostruzione di un amore diverso... 

Eppure è questo, a mio avviso, il compito di ogni coppia che giunge alla fine dell'amore. Il compito di ogni relazione che, partita dall'amore, scopre che quel sentimento che spingeva indissolubilmente nelle braccia dell'Altro, ora si è affievolito, magari spento, ma non per questo deve essere rinnegato, abiurato, oltraggiato, ferito, a volte (ahinoi) addirittura ucciso.  

Certo, il percorso che spinge dalla consapevolezza dell'amore finito alla necessità di un nuovo amore, che proprio da quella fine può rinnovarsi, che proprio per quella fine può e deve rinnovarsi, diverso ma ugualmente vivo, non mortificante... certo, questo percorso, non è per nulla semplice. 

Compito utopico, senz'altro; che va contro tutti i luoghi comuni, i consigli degli amici e dei parenti, la subcultura dei rotocalchi e dei programmi televisivi, insomma: il mondo tutto, questo mondo tutto, che, quando un amore finisce, sembrerebbe restituire solo l'esperienza dello scontro, del "adesso ti faccio vedere io", della vendetta o, nel migliore dei casi, della rimozione.

Tuttavia, la mia esperienza, in tanti anni di supporto alle coppie in crisi, testimonia che la coppia di amanti che più amanti non sono, se adeguatamente accompagnata, correttamente armata di conoscenze e di pazienza, può vincere la sfida di rinnovare quell'amore perduto, accettando anzitutto di provare a sostare nel territorio dell'utopia. 

E poi, vada come vada, di nuovo insieme e separati, ma non sottratti, ma mai sottratti dal riconoscersi come parte di una medesima storia, di un medesimo cammino,, tanto più quanto più durante quel camino sono nati dei figli a testimoniarne il senso.

Affidandosi a questo tour operator del cuore, a questo esperto in viaggi impossibili, centinaia di coppie in questi anni hanno sperimentato che l'utopia è -invece- possibile e che è sempre salvifico lasciarsi trascinare su quell'isola che non c'è, dove gli amori alla fine dell'amore, possono trovare un approdo di rinnovato ben-essere, anzitutto riconoscendosi come entità di una storia comune che, per quanto a un bivio, li terrà uniti per sempre.



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Giuseppe Love Maria - un amore Natale

"Nel Grembo umido, scuro del tempio, / l'ombra era fredda, gonfia d'incenso. / L'angelo scese, come ogni sera, / ad insegnarmi una nuova preghiera: / poi, d'improvviso, mi sciolse le mani / e le mie braccia divennero ali, / quando mi chiese: "Conosci l'estate" / io, per un giorno, per un momento, / corsi a vedere il colore del vento. / Volammo davvero sopra le case, / oltre i cancelli, gli orti, le strade, / poi scivolammo tra valli fiorite / dove all'ulivo si abbraccia la vite. / Scendemmo là, dove il giorno si perde / a cercarsi da solo nascosto tra il verde, / e mi parlò come quando si prega, / ed alla fine d'ogni preghiera / contava una vertebra della mia schiena.".

È Fabrizio De Andrè che, in quel capolavoro de "La buona novella" (1970), restituisce con grazia, delicatezza e appropriata ambiguità, quell'incontro fatale, sospeso tra amore, preghiera, sensualità, tra una giovanissima Maria e il suo angelo (Angelo?), quell'angelo che in ebraico è "malac", ossia letteralmente: "messo", "messaggero", e non necessariamente quel soggetto con ali e aurea divina che tanta iconografia ci ha restituito (e, infatti, in nessun vangelo vi sono evidenti fattezze divine di questo personaggio). Chi è dunque quest'uomo?
Nell'opera apocrifa di Tommaso (secondo alcuni il V vangelo, il più importante tra quelli non accolti nel canone neotestamentario) troviamo, ad esempio, che Maria, figlia di Gioacchino, fu violentata nel tempio da un centurione romano di nome Caesar nel suo quattordicesimo compleanno, mentre era fidanzata con un falegname (Giuseppe).

Ma, sia come sia, per fulmine d'amore, come vorrebbe De Andrè (che per altro ha tratto la sua "La buona novella" proprio dalle letture dei diversi vangeli apocrifi), o per violenza inaudita, come racconta Tommaso; sta di fatto che Maria rimane incinta. E qui inizia, per me, la storia del natale che più mi piace.

Una storia il cui senso profondo, come tutti i racconti, prescinde dalla sua verità, per sostanziarsi, invece, in una metafora, un messaggio -in questo caso- sull'amore. Un amore che supera tutte le insidie e, a discapito d'ogni apparente insuperabile ostacolo, si conclude con la nascita di un bimbo: quel terzo che non sono «io» e non sei «tu» ma che, al contempo, in virtù del nostro amore, ci racchiude, ci unisce, ci supera...

Trova compimento, insomma, con il Natale, quell'amore che è dono della persona alla persona (qualsiasi sia il genere e le modalità di abbinamento che le unisce) e che, attraverso un patto d'amore in cui i due si danno e si ricevono, si fa altro da loro, immagine terza che li incarna, persino a prescindere dal fatto che questa incarnazione si concreti in un figlio -come suggerisce un altro angelo (questo protagonista del capolavoro di Win Wenders “Il cielo sopra Berlino”) dopo che ha incontrato la donna per cui ha deciso di diventare umano: “Nessun bimbo mortale è stato concepito,” dice, “ma un’immagine immortale, comune.”.

È dunque questa la storia del Natale che raramente viene raccontata. La storia di una ragazza, una come tante: fidanzata, destinata ad essere moglie e, forse, un giorno, ad essere madre. Una ragazza che, per dolo o per amore, rimane incinta, ma non è il promesso sposo il padre del bambino. Tragedia, dunque, è tanto più in quel tempo remoto.

Il mondo, il suo mondo, di fronte al tal misfatto, le si potrebbe rivoltare contro; il suo destino... divenire fatale. L'onore macchiato, la reputazione, il biasimo della comunità, le accuse, i pregiudizi della gente... persino la legge. Il promesso sposo, infatti, dal punto di vista giuridico, potrebbe denunciarla, la giovane donna sarebbe così accusata di adulterio e, secondo gli usi del tempo, lapidata.
 Amore in Mediado
Eppure... Eppure, tutto questo non accade. Succede, invece, che, Giuseppe, si fida di Maria, della sua parola, del suo e del loro amore. Apre le braccia alla sua amata e si fa carico di una responsabilità non sua, contro il luogo comune, contro il giudizio della gente, contro le avversità che vorrebbero quell'amore naufragare all'istante, fors'anche contro un certo istinto naturale che lo vorrebbe reagire a difesa del torto subito.

Bene lo sa chi incontra ogni giorno tante coppie sul punto di naufragare, quanto sia difficile aiutare questi amori in crisi o in caduta libera, magari anche a fronte di un tradimento, a superare l'istinto animale che ci possiede e ci fa reagire con rancore, rabbia, a volte violenza, per giungere, invece, ad essere un po' più umani ("umani più umani", mi piace dire) mettendo da parte la spinta intestina che fa divampare il conflitto distruttivo, per accedere all'utopia di un sano e costruttivo conflitto cooperativo.

Accettare la soggettività dell'Altro, il suo essere altro da noi, "cosa non nostra", soggetto a se stante, con visioni e desideri che ci prescindono. Questo ha capito Giuseppe: che Maria è il suo amore, non cosa sua. Per questo è disposto a difenderla, a sposarla, anche se quella storia è talmente farlocca che solo per amore vi si può credere. Oppure, no. Forse Maria gli racconta il vero: la storia di un uomo, Angelo, un angelo, che ha amato e da cui è stata amata, per un giorno d'estate, un'istante di pura passione in cui i sensi e la carne hanno ceduto ad ogni precedente promessa.

Questa è la versione che, personalmente, preferisco. Non la violenza descritta da Tommaso, ma la giovane Maria rimasta incantata da un incontro fatale, un colpo di fulmine che rapisce il cuore, il corpo, la mente. Ma poi... dopo la luce del fulmine, i sensi lasciano il campo al dirompente tuono che, col suo rombare, conduce nuovamente alla ragione... E quante volte è accaduto, e quante volte accadrà... 

L'amore creduto si trasforma, allora, in errore, Maria capisce che quell'uomo non è il suo uomo (e viene in mente un'altra canzone, forse menò aulica ma non meno pertinente: "[...] Se ho sbagliato un giorno capisco che / l'ho pagata cara la verità / io ti chiedo scusa, e sai perché / sta di casa qui la felicità" cantava Caterina Caselli nel 1966). Così, Maria torna da Giuseppe e gli racconta tutto. E Giuseppe l'accoglie e diventa padre, padre di un figlio non suo che amerà, cui darà discendenza, a cui insegnerà la vita e il mestiere.

Quanto coraggio in questa donna e in questo uomo che scelgono la strada della reciproca fiducia e si donano all'Altro con tutta la loro fragilità affinché venga accolta e curata. 

Letta da questa angolazione mi sembra tanto più convincente per i valori cristiani, e non perché lei si pente e lui la perdona, né perché si riuniscono anziché separarsi, bensì perché entrambi si per-donano, si donano all'Altro privilegiando l'amore -azione che non necessariemnete contempla il restare insieme, come invece avviene in questo caso.

E come non pensare, alle centinaia di uomini, mariti, compagni, amanti, fidanzati, che, ogni anno, per lo stesso amore, uccidono o ai tanti altri che, senza arrivare ad uccidere, sono tanto lontani da questa idea dell'amore senza possesso, un amore che libera, anziché imprigionare, e libera fino all’estrema conseguenza di accettare che l'Altro si liberi di noi, poiché la sua storia (sua e solo sua) ora volge altrove.

A questi amori difficili che faticano a scegliere la libertà che libera e che troviamo un po’ ovunque, non solo nelle relazioni di coppia, ma tra amici, fratelli, genitori e figli, a loro per me è dedicato questo giorno speciale.

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"Nel Grembo umido, scuro del tempio, / l'ombra era fredda, gonfia d'incenso. / L'angelo scese, come ogni sera, / ad insegnarmi una nuova preghiera: / poi, d'improvviso, mi sciolse le mani / e le mie braccia divennero ali, / quando mi chiese: "Conosci l'estate" / io, per un giorno, per un momento, / corsi a vedere il colore del vento. / Volammo davvero sopra le case, / oltre i cancelli, gli orti, le strade, / poi scivolammo tra valli fiorite / dove all'ulivo si abbraccia la vite. / Scendemmo là, dove il giorno si perde / a cercarsi da solo nascosto tra il verde, / e mi parlò come quando si prega, / ed alla fine d'ogni preghiera / contava una vertebra della mia schiena.".

È Fabrizio De Andrè che, in quel capolavoro de "La buona novella" (1970), restituisce con grazia, delicatezza e appropriata ambiguità, quell'incontro fatale, sospeso tra amore, preghiera, sensualità, tra una giovanissima Maria e il suo angelo (Angelo?), quell'angelo che in ebraico è "malac", ossia letteralmente: "messo", "messaggero", e non necessariamente quel soggetto con ali e aurea divina che tanta iconografia ci ha restituito (e, infatti, in nessun vangelo vi sono evidenti fattezze divine di questo personaggio). Chi è dunque quest'uomo?
Nell'opera apocrifa di Tommaso (secondo alcuni il V vangelo, il più importante tra quelli non accolti nel canone neotestamentario) troviamo, ad esempio, che Maria, figlia di Gioacchino, fu violentata nel tempio da un centurione romano di nome Caesar nel suo quattordicesimo compleanno, mentre era fidanzata con un falegname (Giuseppe).

Ma, sia come sia, per fulmine d'amore, come vorrebbe De Andrè (che per altro ha tratto la sua "La buona novella" proprio dalle letture dei diversi vangeli apocrifi), o per violenza inaudita, come racconta Tommaso; sta di fatto che Maria rimane incinta. E qui inizia, per me, la storia del natale che più mi piace.

Una storia il cui senso profondo, come tutti i racconti, prescinde dalla sua verità, per sostanziarsi, invece, in una metafora, un messaggio -in questo caso- sull'amore. Un amore che supera tutte le insidie e, a discapito d'ogni apparente insuperabile ostacolo, si conclude con la nascita di un bimbo: quel terzo che non sono «io» e non sei «tu» ma che, al contempo, in virtù del nostro amore, ci racchiude, ci unisce, ci supera...

Trova compimento, insomma, con il Natale, quell'amore che è dono della persona alla persona (qualsiasi sia il genere e le modalità di abbinamento che le unisce) e che, attraverso un patto d'amore in cui i due si danno e si ricevono, si fa altro da loro, immagine terza che li incarna, persino a prescindere dal fatto che questa incarnazione si concreti in un figlio -come suggerisce un altro angelo (questo protagonista del capolavoro di Win Wenders “Il cielo sopra Berlino”) dopo che ha incontrato la donna per cui ha deciso di diventare umano: “Nessun bimbo mortale è stato concepito,” dice, “ma un’immagine immortale, comune.”.

È dunque questa la storia del Natale che raramente viene raccontata. La storia di una ragazza, una come tante: fidanzata, destinata ad essere moglie e, forse, un giorno, ad essere madre. Una ragazza che, per dolo o per amore, rimane incinta, ma non è il promesso sposo il padre del bambino. Tragedia, dunque, è tanto più in quel tempo remoto.

Il mondo, il suo mondo, di fronte al tal misfatto, le si potrebbe rivoltare contro; il suo destino... divenire fatale. L'onore macchiato, la reputazione, il biasimo della comunità, le accuse, i pregiudizi della gente... persino la legge. Il promesso sposo, infatti, dal punto di vista giuridico, potrebbe denunciarla, la giovane donna sarebbe così accusata di adulterio e, secondo gli usi del tempo, lapidata.
 Amore in Mediado
Eppure... Eppure, tutto questo non accade. Succede, invece, che, Giuseppe, si fida di Maria, della sua parola, del suo e del loro amore. Apre le braccia alla sua amata e si fa carico di una responsabilità non sua, contro il luogo comune, contro il giudizio della gente, contro le avversità che vorrebbero quell'amore naufragare all'istante, fors'anche contro un certo istinto naturale che lo vorrebbe reagire a difesa del torto subito.

Bene lo sa chi incontra ogni giorno tante coppie sul punto di naufragare, quanto sia difficile aiutare questi amori in crisi o in caduta libera, magari anche a fronte di un tradimento, a superare l'istinto animale che ci possiede e ci fa reagire con rancore, rabbia, a volte violenza, per giungere, invece, ad essere un po' più umani ("umani più umani", mi piace dire) mettendo da parte la spinta intestina che fa divampare il conflitto distruttivo, per accedere all'utopia di un sano e costruttivo conflitto cooperativo.

Accettare la soggettività dell'Altro, il suo essere altro da noi, "cosa non nostra", soggetto a se stante, con visioni e desideri che ci prescindono. Questo ha capito Giuseppe: che Maria è il suo amore, non cosa sua. Per questo è disposto a difenderla, a sposarla, anche se quella storia è talmente farlocca che solo per amore vi si può credere. Oppure, no. Forse Maria gli racconta il vero: la storia di un uomo, Angelo, un angelo, che ha amato e da cui è stata amata, per un giorno d'estate, un'istante di pura passione in cui i sensi e la carne hanno ceduto ad ogni precedente promessa.

Questa è la versione che, personalmente, preferisco. Non la violenza descritta da Tommaso, ma la giovane Maria rimasta incantata da un incontro fatale, un colpo di fulmine che rapisce il cuore, il corpo, la mente. Ma poi... dopo la luce del fulmine, i sensi lasciano il campo al dirompente tuono che, col suo rombare, conduce nuovamente alla ragione... E quante volte è accaduto, e quante volte accadrà... 

L'amore creduto si trasforma, allora, in errore, Maria capisce che quell'uomo non è il suo uomo (e viene in mente un'altra canzone, forse menò aulica ma non meno pertinente: "[...] Se ho sbagliato un giorno capisco che / l'ho pagata cara la verità / io ti chiedo scusa, e sai perché / sta di casa qui la felicità" cantava Caterina Caselli nel 1966). Così, Maria torna da Giuseppe e gli racconta tutto. E Giuseppe l'accoglie e diventa padre, padre di un figlio non suo che amerà, cui darà discendenza, a cui insegnerà la vita e il mestiere.

Quanto coraggio in questa donna e in questo uomo che scelgono la strada della reciproca fiducia e si donano all'Altro con tutta la loro fragilità affinché venga accolta e curata. 

Letta da questa angolazione mi sembra tanto più convincente per i valori cristiani, e non perché lei si pente e lui la perdona, né perché si riuniscono anziché separarsi, bensì perché entrambi si per-donano, si donano all'Altro privilegiando l'amore -azione che non necessariemnete contempla il restare insieme, come invece avviene in questo caso.

E come non pensare, alle centinaia di uomini, mariti, compagni, amanti, fidanzati, che, ogni anno, per lo stesso amore, uccidono o ai tanti altri che, senza arrivare ad uccidere, sono tanto lontani da questa idea dell'amore senza possesso, un amore che libera, anziché imprigionare, e libera fino all’estrema conseguenza di accettare che l'Altro si liberi di noi, poiché la sua storia (sua e solo sua) ora volge altrove.

A questi amori difficili che faticano a scegliere la libertà che libera e che troviamo un po’ ovunque, non solo nelle relazioni di coppia, ma tra amici, fratelli, genitori e figli, a loro per me è dedicato questo giorno speciale.

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Il carattere universale dell'Amore

L'amore, ogni amore, fa storia a sé, al di là delle congiunture temporali e spaziali. E' per ciò necessario osservare ogni amore sgomberando il campo da qualsivoglia pregiudizio, restituendo ad ogni apparente anomalia il suo carattere di normalità, insieme -appunto- alla natura strettamente temporale e culturale di ogni pur bizzarro concetto e pratica amorosa, comprese le qui osservate pratiche odierne.

Ciò detto, al di là di ogni particolarità, chi si diverte a tradurre in freddi processi biochimici la misteriosa poesia della natura umana, pare abbia individuato alcuni dei meccanismi universali che inducono l’amore, dimostrando che, quando ci innamoriamo e nelle fasi che succedono all'innamoramento, si scatenano nel nostro corpo tutta un serie di reazioni biochimiche che inducono sensazioni di euforia, attrazione, desiderio, passione e, poi, via via che la conoscenza dell'Altro si fa più profonda, tenerezza, calore, cura...

Si tratterebbe, secondo ormai numerose ricerche, di una vera e propria iniezione di sostanze dagli effetti psicotropi che regolano ogni relazione amorosa, dall'inizio alla fine.

Molto schematicamente, secondo questa ipotesi, quando ci innamoriamo, il mesencefalo, quella zona del cervello legata (non a caso) alla vista e all'udito, comincia a rilasciare dopamina, un neurotrasmettitore in grado di farci provare sensazioni di piacere ed euforia. 

Il nostro corpo invia allora segnali, per quanto apparentemente impercettibili, di attrazione: pupille che si dilatano, batticuore, viso arrossato, leggero sudore che irrora la pelle, odori. 

 Amore in MediadoSe l'Altro reagisce positivamente, allora si rafforzano i circuiti cerebrali e aumenta la sensazione di piacere. Così, ad ogni nuovo incontro, la dopamina entra sempre più in circolo aumentando il desiderio dell’Altro e, con essa, altri due neurotrasmettitori: la noradrenalina e la feniletilamina. 

In questo modo si scatena l’eccitazione, l’inappetenza, l’ansia, mentre, contemporaneamente, l’abbassamento dei livelli di serotonina, favorisce l'insorgere di quel sentimento di ossessione per cui ci sembra di non poter più fare a meno dell’Altro. 

Poi il rapporto si approfondisce, ed entra in campo l'ipotalamo che stimola la produzione di ossitocina, un ormone responsabile dei nostri sentimenti di tenerezza e calore: è il tempo delle carezze, dei baci, del sesso, attività che a loro volta innalzano i livelli di ossitocina.

Ma, ahinoi, madre natura, ci informano queste ricerche, ci dà una spinta, non ci sorregge per sempre. 

Infatti, questa fantastica reazione pare destinata a durare ben poco: dai 35 ai 45 mesi , dopodiché il cervello, come un vero tossicodipendente, si assuefà e non reagisce più a quegli stimoli che un tempo lo facevano sballare. 

È a questo punto che, se non entrano in campo altri elementi, può iniziare la crisi.

E' come se madre natura ci desse una spinta (non a caso quei 3/4 anni che possono essere utili a mettere al mondo una nuova creatura dando impulso alla specie) e poi lasciasse che libero arbitrio e suggestioni culturali prendano il sopravvento.


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L'amore, ogni amore, fa storia a sé, al di là delle congiunture temporali e spaziali. E' per ciò necessario osservare ogni amore sgomberando il campo da qualsivoglia pregiudizio, restituendo ad ogni apparente anomalia il suo carattere di normalità, insieme -appunto- alla natura strettamente temporale e culturale di ogni pur bizzarro concetto e pratica amorosa, comprese le qui osservate pratiche odierne.

Ciò detto, al di là di ogni particolarità, chi si diverte a tradurre in freddi processi biochimici la misteriosa poesia della natura umana, pare abbia individuato alcuni dei meccanismi universali che inducono l’amore, dimostrando che, quando ci innamoriamo e nelle fasi che succedono all'innamoramento, si scatenano nel nostro corpo tutta un serie di reazioni biochimiche che inducono sensazioni di euforia, attrazione, desiderio, passione e, poi, via via che la conoscenza dell'Altro si fa più profonda, tenerezza, calore, cura...

Si tratterebbe, secondo ormai numerose ricerche, di una vera e propria iniezione di sostanze dagli effetti psicotropi che regolano ogni relazione amorosa, dall'inizio alla fine.

Molto schematicamente, secondo questa ipotesi, quando ci innamoriamo, il mesencefalo, quella zona del cervello legata (non a caso) alla vista e all'udito, comincia a rilasciare dopamina, un neurotrasmettitore in grado di farci provare sensazioni di piacere ed euforia. 

Il nostro corpo invia allora segnali, per quanto apparentemente impercettibili, di attrazione: pupille che si dilatano, batticuore, viso arrossato, leggero sudore che irrora la pelle, odori. 

 Amore in MediadoSe l'Altro reagisce positivamente, allora si rafforzano i circuiti cerebrali e aumenta la sensazione di piacere. Così, ad ogni nuovo incontro, la dopamina entra sempre più in circolo aumentando il desiderio dell’Altro e, con essa, altri due neurotrasmettitori: la noradrenalina e la feniletilamina. 

In questo modo si scatena l’eccitazione, l’inappetenza, l’ansia, mentre, contemporaneamente, l’abbassamento dei livelli di serotonina, favorisce l'insorgere di quel sentimento di ossessione per cui ci sembra di non poter più fare a meno dell’Altro. 

Poi il rapporto si approfondisce, ed entra in campo l'ipotalamo che stimola la produzione di ossitocina, un ormone responsabile dei nostri sentimenti di tenerezza e calore: è il tempo delle carezze, dei baci, del sesso, attività che a loro volta innalzano i livelli di ossitocina.

Ma, ahinoi, madre natura, ci informano queste ricerche, ci dà una spinta, non ci sorregge per sempre. 

Infatti, questa fantastica reazione pare destinata a durare ben poco: dai 35 ai 45 mesi , dopodiché il cervello, come un vero tossicodipendente, si assuefà e non reagisce più a quegli stimoli che un tempo lo facevano sballare. 

È a questo punto che, se non entrano in campo altri elementi, può iniziare la crisi.

E' come se madre natura ci desse una spinta (non a caso quei 3/4 anni che possono essere utili a mettere al mondo una nuova creatura dando impulso alla specie) e poi lasciasse che libero arbitrio e suggestioni culturali prendano il sopravvento.


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All you need is love

“All you need is love,” cantavano i Beatles in un loro famosissimo brano, ma questo slogan vale solo nel qui e ora della nostra epoca, anzi, almeno per quel che concerne la storia dell’amore, ne è in qualche modo la sigla.

La canzone, scritta da John Lennon nel 1967 come brano di apertura che inaugurava il primo collegamento live via satellite della BBC londinese, sembra giungere alla fine di un percorso avviatosi col Romanticismo, coronando i primordi di un nuovo mondo globalizzato in cui l’amore di coppia assume un senso e una forma come mai s’erano visti prima e che si può tradurre secondo questa formula: il matrimonio è una conseguenza dell'amore, per cui due persone anzitutto si innamorano e, quindi, proprio per questo, decidono di sposarsi.

A pensarci bene, la tradizione praticamente universale prima di questo scorcio di tempo in cui anche noi viviamo, presupponeva l’esatto contrario, ossia: due persone anzitutto si sposano e, quindi, in virtù di questo fatto, tra loro nasce l'amore… forse, nasce l’amore… ma a quel punto poco importa, non era certo l’amore, l’obiettivo della loro unione.

 Amore in MediadoInfatti, prima di questa rivoluzione per cui “tutto ciò di cui hai bisogno è l'amore” (all you need is love), se avessimo chiesto a un contadino perché si sposava, questi “[…] avrebbe risposto che tutto quello di cui aveva bisogno era una brava lavoratrice, che mettesse al mondo dei bambini robusti, tenesse stretti i cordoni della borsa e badasse a non far andare a male il cibo. […] Un principe avrebbe risposto che quel che gli serviva era la giovane figlia di un altro potente principato: una che portasse al seguito truppe e denaro, che gli garantisse una crescita di potere e fosse in grado -va da sé- di procreare eredi al trono, maschi” e non diversamente avrebbero replicato il loro pari (operai e industriali) fino alla metà dell'Ottocento e, in alcune aree sociali e geografiche, finanche del Novecento. Insomma, l’unione di due persone, prima di questo nostro tempo incerto, ha sempre dovuto fare i conti con la necessità, molto animale, di anticipare le esigenze della riproduzione e della sopravvivenza della specie, alle pretese della felicità personale: la dittatura della genia sui desiderata della carne. Anzi, in gran parte di queste società, non esisteva nemmeno l’idea di individuo, esisteva la collettività che preesisteva e persisteva al singolo e alla cui conservazione e prosperità tutto doveva essere assoggettato. 

Forse, se invece di pensare che tutto ciò di cui abbiamo bisogno è l'amore, avessimo provato a pensare che l’Uomo, nella sua funzione di specie, avesse bisogno di essere maggiormente amato, probabilmente l’umanità oggi non si troverebbe a fare i conti con un suo imminente collasso (provocato, per altro, in non più di cento anni). Ma, a ben guardare, è proprio da quando si è invertita questa tendenza, privilegiando i desideri egoici del singolo, nel qui e ora di ogni miserrima esistenza, sulle necessità della collettività, che la specie umana ha cominciato a sentire la terra mancargli sotto i piedi… E, per quanto possa sembrare estraneo al nostro argomentare, vedremo che ha molta più pertinenza di quello che si possa immaginare e che, per dirlo con un’altra canzone, questa di Roberto Vecchioni: “Forse non lo sai ma pure questo è amore…” .

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“All you need is love,” cantavano i Beatles in un loro famosissimo brano, ma questo slogan vale solo nel qui e ora della nostra epoca, anzi, almeno per quel che concerne la storia dell’amore, ne è in qualche modo la sigla.

La canzone, scritta da John Lennon nel 1967 come brano di apertura che inaugurava il primo collegamento live via satellite della BBC londinese, sembra giungere alla fine di un percorso avviatosi col Romanticismo, coronando i primordi di un nuovo mondo globalizzato in cui l’amore di coppia assume un senso e una forma come mai s’erano visti prima e che si può tradurre secondo questa formula: il matrimonio è una conseguenza dell'amore, per cui due persone anzitutto si innamorano e, quindi, proprio per questo, decidono di sposarsi.

A pensarci bene, la tradizione praticamente universale prima di questo scorcio di tempo in cui anche noi viviamo, presupponeva l’esatto contrario, ossia: due persone anzitutto si sposano e, quindi, in virtù di questo fatto, tra loro nasce l'amore… forse, nasce l’amore… ma a quel punto poco importa, non era certo l’amore, l’obiettivo della loro unione.

 Amore in MediadoInfatti, prima di questa rivoluzione per cui “tutto ciò di cui hai bisogno è l'amore” (all you need is love), se avessimo chiesto a un contadino perché si sposava, questi “[…] avrebbe risposto che tutto quello di cui aveva bisogno era una brava lavoratrice, che mettesse al mondo dei bambini robusti, tenesse stretti i cordoni della borsa e badasse a non far andare a male il cibo. […] Un principe avrebbe risposto che quel che gli serviva era la giovane figlia di un altro potente principato: una che portasse al seguito truppe e denaro, che gli garantisse una crescita di potere e fosse in grado -va da sé- di procreare eredi al trono, maschi” e non diversamente avrebbero replicato il loro pari (operai e industriali) fino alla metà dell'Ottocento e, in alcune aree sociali e geografiche, finanche del Novecento. Insomma, l’unione di due persone, prima di questo nostro tempo incerto, ha sempre dovuto fare i conti con la necessità, molto animale, di anticipare le esigenze della riproduzione e della sopravvivenza della specie, alle pretese della felicità personale: la dittatura della genia sui desiderata della carne. Anzi, in gran parte di queste società, non esisteva nemmeno l’idea di individuo, esisteva la collettività che preesisteva e persisteva al singolo e alla cui conservazione e prosperità tutto doveva essere assoggettato. 

Forse, se invece di pensare che tutto ciò di cui abbiamo bisogno è l'amore, avessimo provato a pensare che l’Uomo, nella sua funzione di specie, avesse bisogno di essere maggiormente amato, probabilmente l’umanità oggi non si troverebbe a fare i conti con un suo imminente collasso (provocato, per altro, in non più di cento anni). Ma, a ben guardare, è proprio da quando si è invertita questa tendenza, privilegiando i desideri egoici del singolo, nel qui e ora di ogni miserrima esistenza, sulle necessità della collettività, che la specie umana ha cominciato a sentire la terra mancargli sotto i piedi… E, per quanto possa sembrare estraneo al nostro argomentare, vedremo che ha molta più pertinenza di quello che si possa immaginare e che, per dirlo con un’altra canzone, questa di Roberto Vecchioni: “Forse non lo sai ma pure questo è amore…” .

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Divorzio breve, matrimonio pure

In un bell'articolo del 2009 ("Perché si sceglie di stare insieme una vita senza una vera ragione per farlo" -Repubblica, 1 settembre 2009), il filosofo Umberto Galimberti esortava, tra le altre cose, a riflettere sulla fragilità delle relazioni di coppia contemporanee, segnata dalla tendenza, sempre più diffusa, alla separazione, quasi che, per boutade paradossale, l'accesso al divorzio si configurasse quale passaggio fondamentale per giungere al (vero) traguardo della separazione.

Galimberti, la cui opera non può certo essere accusata di clericalità, invitava a riflettere su come, in un'epoca in cui tutti sembrerebbero protesi a chiedere un qualche tipo di facilitazione al divorzio, forse ci si dovrebbe interrogare su come rendere difficile il matrimonio.

Qualche anno dopo quell'articolo, ecco dunque la legge sul divorzio breve.

Il legislatore ha voluto così prestare ascolto ai tanti sofferenti che, finiti nel gorgo della separazione, erano costretti ad aspettate almeno tre anni (salvo ricorsi in giudizio) prima di veder sciogliersi, sulle carte della burocrazia, quell'amore che, nella mente e nel corpo, si era dissolto da anni.

Opera meritevole, per carità, ma forse, come troppo spesso accade, evirata di quella profondità che Galimberti aveva provato a restituire e che, chi si occupa dell'amore con le sue crisi e i suoi rimedi, incontra tutti i giorni nel suo lavoro clinico.

Più volte in questo blog abbiamo sollecitato a riflettere, noi pure lontani da qualsivoglia immischiamento religioso, su come la gran parte delle persone che giungono in mediazione, presentino, fondamentalmente, il dilemma, tutto individuale, del non saper più come amare che spinge alla rieducazione, piuttosto che la certezza, più strettamente relazionale, del "Non ti amo più" che spinge alla separazione.

 Amore in MediadoNon è differenza da poco. E non tanto perché non ci si possa separare, per quel che mi riguarda, anche al ritmo di un divorzio ogni due settimane; ma perché, come bene ci insegnano le culture tradizionali, ogni separazione, pur consapevole che sia, comporta costi sociali e individuali: sul piano relazionale, psicologico e, non ultimo, economico. Costi che non possono essere ignorati o ridotti a effetto collaterale, ma necessitano di essere disciplinati, anzitutto, sul piano di un corretto e costruttivo accesso alla conflittualità, capace di non trasformare ogni separazione in quella guerra senza confini cui, purtroppo, le cronache ci hanno abituato.

Ma, al di là di quelle separazioni che denunciano un amore effettivamente finito, ciò che ci preoccupa di questa insostenibile leggerezza del divorzio è, sulla scia di Galimberti, l'insostenibile leggerezza del matrimonio cui implicitamente rimanda; forti dell'esperienza clinica che ci vede ogni giorno confrontarci con coppie che credono di essere giunte al dramma della frutta quando, la vera tragedia, è che non hanno imparato a stare al tavolo che l'amore contemporaneo apparecchia o, peggio, non avrebbero nemmeno dovuto sedersi insieme (e, soprattutto, farci sedere figli e figlie).

Così, mentre un po' in ogni dove del vivere contemporaneo, l'escalation verso la civiltà sembrerebbe suggerire la strada della semplificazione, della facilitazione; per quel che concerne quell'amore che volge al costituzione di una famiglia, a maggiore ragione ora con il divorzio breve, crediamo sia necessario costruire una nuova cultura dell'amore coniugale, attraverso laici dispositivi di approccio alla vita a due e, più in generale, alla vita famigliare. Il che significa, non solo lavorare sulle emergenze delle coppie in crisi, ma anche lavorare affinché queste coppie giungano in mediazione prima che la crisi sia inevitabilmente volta alla sola possibilità della separazione e, sopra a tutto, lavorare affinché le nuove coppie che intendono coniugarsi arrivino al matrimonio con quella consapevolezza che augurava Pier Paolo Pasolini nel finale del suo "Comizi D'amore": «Al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore».


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In un bell'articolo del 2009 ("Perché si sceglie di stare insieme una vita senza una vera ragione per farlo" -Repubblica, 1 settembre 2009), il filosofo Umberto Galimberti esortava, tra le altre cose, a riflettere sulla fragilità delle relazioni di coppia contemporanee, segnata dalla tendenza, sempre più diffusa, alla separazione, quasi che, per boutade paradossale, l'accesso al divorzio si configurasse quale passaggio fondamentale per giungere al (vero) traguardo della separazione.

Galimberti, la cui opera non può certo essere accusata di clericalità, invitava a riflettere su come, in un'epoca in cui tutti sembrerebbero protesi a chiedere un qualche tipo di facilitazione al divorzio, forse ci si dovrebbe interrogare su come rendere difficile il matrimonio.

Qualche anno dopo quell'articolo, ecco dunque la legge sul divorzio breve.

Il legislatore ha voluto così prestare ascolto ai tanti sofferenti che, finiti nel gorgo della separazione, erano costretti ad aspettate almeno tre anni (salvo ricorsi in giudizio) prima di veder sciogliersi, sulle carte della burocrazia, quell'amore che, nella mente e nel corpo, si era dissolto da anni.

Opera meritevole, per carità, ma forse, come troppo spesso accade, evirata di quella profondità che Galimberti aveva provato a restituire e che, chi si occupa dell'amore con le sue crisi e i suoi rimedi, incontra tutti i giorni nel suo lavoro clinico.

Più volte in questo blog abbiamo sollecitato a riflettere, noi pure lontani da qualsivoglia immischiamento religioso, su come la gran parte delle persone che giungono in mediazione, presentino, fondamentalmente, il dilemma, tutto individuale, del non saper più come amare che spinge alla rieducazione, piuttosto che la certezza, più strettamente relazionale, del "Non ti amo più" che spinge alla separazione.

 Amore in MediadoNon è differenza da poco. E non tanto perché non ci si possa separare, per quel che mi riguarda, anche al ritmo di un divorzio ogni due settimane; ma perché, come bene ci insegnano le culture tradizionali, ogni separazione, pur consapevole che sia, comporta costi sociali e individuali: sul piano relazionale, psicologico e, non ultimo, economico. Costi che non possono essere ignorati o ridotti a effetto collaterale, ma necessitano di essere disciplinati, anzitutto, sul piano di un corretto e costruttivo accesso alla conflittualità, capace di non trasformare ogni separazione in quella guerra senza confini cui, purtroppo, le cronache ci hanno abituato.

Ma, al di là di quelle separazioni che denunciano un amore effettivamente finito, ciò che ci preoccupa di questa insostenibile leggerezza del divorzio è, sulla scia di Galimberti, l'insostenibile leggerezza del matrimonio cui implicitamente rimanda; forti dell'esperienza clinica che ci vede ogni giorno confrontarci con coppie che credono di essere giunte al dramma della frutta quando, la vera tragedia, è che non hanno imparato a stare al tavolo che l'amore contemporaneo apparecchia o, peggio, non avrebbero nemmeno dovuto sedersi insieme (e, soprattutto, farci sedere figli e figlie).

Così, mentre un po' in ogni dove del vivere contemporaneo, l'escalation verso la civiltà sembrerebbe suggerire la strada della semplificazione, della facilitazione; per quel che concerne quell'amore che volge al costituzione di una famiglia, a maggiore ragione ora con il divorzio breve, crediamo sia necessario costruire una nuova cultura dell'amore coniugale, attraverso laici dispositivi di approccio alla vita a due e, più in generale, alla vita famigliare. Il che significa, non solo lavorare sulle emergenze delle coppie in crisi, ma anche lavorare affinché queste coppie giungano in mediazione prima che la crisi sia inevitabilmente volta alla sola possibilità della separazione e, sopra a tutto, lavorare affinché le nuove coppie che intendono coniugarsi arrivino al matrimonio con quella consapevolezza che augurava Pier Paolo Pasolini nel finale del suo "Comizi D'amore": «Al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore».


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L'amore in crisi

Nel marzo 2012 ho avuto il piacere di pubblicare, per i tipi di Firera & Liuzzo Publisching, un libro dal titolo "L'Amore alla Fine dell'Amore" in cui affrontavo il tema delle crisi d'amore che portano alla separazione e al divorzio e alla possibilità che queste siano gestite attraverso un percorso che non neghi l'utopia che un nuovo amore, un amore diverso, possa sorgere dalle ceneri del precedente, non per una qualche beghina ideologia antidivorzista, ma affinché, scegliendo la strada del farsi del bene, anziché quella del farsi del male, si possa aspirare al pieno e copioso accesso ad un benessere che veda presente e futuro, da coniugi o da divorziati, come risorsa generativa e non come pretesto distruttivo, per sé e, soprattutto, per gli eventuali figli coinvolti.

Con il medesimo intento, ho proseguito questa riflessione in un secondo volume dal titolo "Amore in Mediato" dove invece, ho allargato il campo delle osservazioni non solo alla coppia, ma alla coppia nel contesto epocale in cui viviamo che, a mio avviso, può ugualmente dirsi “dell'amore alla fine dell'amore”, denunciando cioè come l'amore, almeno per come lo conosciamo e pratichiamo, è arrivato al suo capolinea e necessita quindi di una riconfigurazione che ci aiuti meglio a comprendere cosa è diventato e come poterne adeguatamente fruire.

 Amore in MediadoMi piace definire questo contesto epocale in cui i vecchi paradigmi di definizione dell'amore sembrano non più corrispondere con le esigenze e gli agiti degli uomini, con le parole con cui Umberto Eco, nel suo "Postille al nome della rosa", descrive il concetto di post-moderno, periodo storico in cui, secondo molti, siamo immersi: 

“Penso all'atteggiamento postmoderno," scrive Eco, "come quello di chi ami una donna e, molto colto, sappia che non può dirle: 'Ti amo disperatamente', perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia, c'è una soluzione. Potrà dire: 'Come direbbe Liala, ti amo disperatamente'. A questo punto, avrebbe evitato la falsa innocenza, costui avrà però detto alla donna ciò che voleva dire: che l'ama, ma che l'ama in un'epoca di innocenza perduta.”.

A ben vedere, sembrerebbe proprio che la gran parte delle fenomenologie che caratterizzano la nostra epoca costringano l'umano, laddove voglia comprenderle ma, soprattutto, cercare di evitarne gli effetti negativi, ad abbandonare questo sguardo ingenuo di cui dice Eco. Si tratta di una richiesta del tutto nuova, che mai prima d'ora era emersa con questa potenza -potenza che pare aumentare, interrogando e fagocitando nuove aree della società, con una progressione direttamente proporzionale agli (apparenti) livelli di libertà che la stessa società dispone a favore dei suoi individui.

Dobbiamo rifarci a Erich Fromm per comprendere questa particolare configurazione dell'uomo post-moderno, quando, in "Fuga dalla libertà", ci fa riflettere su come la condizione di schiavitù che ha caratterizzato la vita della gran parte degli umani vissuti nelle epoche che hanno preceduto la fase di progressiva democratizzazione del globo (per altro ancora in progress), vada anche letta come deresponsabilizzazione delle scelte che erano demandate a dio, al re, al principe, al feudatario, al padrone e, via via, a tutte le figure della gerarchia sociale: il prete, il medico, l'insegnante, le forze dell'ordine... Condizione che se, appunto, evirava spazi di libertà, concedeva al contempo quella "spensieratezza" dell'esistere, tipica ad esempio dell'infanzia, quando qualcuno decide per noi e noi, pur subendo quella scelta, siamo sottratti alla fatica necessaria cui la scelta chiama e -appunto- alla responsabilità delle sue possibili conseguenze.

Si pensi, per fare un esempio ancora molto recente di questa trasformazione, che quindi gran parte di noi ha avuto modo di sperimentare personalmente, al rapporto che avevamo fino a qualche decennio or sono con alcune figure emblematiche della società, come il medico o l'insegnante, la cui parola-verità era per lo più indiscutibile e che ora, invece, perduta (per diverse concause) la loro aurea sociale, sono largamente messi in discussione con, ad esempio, consulti di varia tipologia e natura prima di decidere -appunto- come curarsi e da chi farsi curare o, nel caso della scuola, con intrusioni della famiglia non solo negli aspetti educativi, ma anche nella didattica.

Insomma, come bene dice Edgar Morin: l’uomo è per natura un animale complesso, la differenza col passato è che oggi questa complessità ci salta addosso, non possiamo più evitarla, dobbiamo farcene carico ognuno personalmente. Le regole, i dettami morali, le ritualità che garantivano una certa coesione sociale si stanno progressivamente sfaldando sotto i colpi di piccone di ogni legittima richiesta di libertà individuale, il problema è che questa libertà, per essere gestita adeguatamente e non fare danni, deve comprendere anche elevati livelli di consapevolezza di sé, del mondo e dei fenomeni che lo sollecitano, quella che appunto Eco chiama "perdita di ingenuità".

Il rischio di una libertà non accompagnata da adeguati strumenti per gestirla, porta, infatti, paradossalmente, ad una obversione della libertà stessa che si accartoccia su se stessa quando ognuno di noi è, ad esempio, chiamato a prendere decisioni su argomenti talmente complessi (si pensi alla genetica, al nucleare, all'eutanasia) da rendere praticamente impossibile la scelta, se non optando per vie puramente emotive -e, in effetti, le fenomenologie e le questioni che attraversano la nostra società, e per cui le persone sono chiamate a scegliere, prevedono una tale e sofisticata conoscenza e su una tale quantità di problematiche che l'uomo comune, pur istruito, non è in grado di affrontare, anzi, su cui si dividono gli stessi esperti.

Tra queste scelte complesse cui siamo chiamati l'amore, e in particolare quell’amore che diviene coniugale e si connatura nella famiglia, non fa eccezione, anzi, in un certo senso, quando focalizziamo sull'amore coniugale e sulla famiglia le riflessioni appena trattate, le cose si fanno assai più insidiose. Vediamo come...

Anzitutto dobbiamo riflettere sul carattere di novità della famiglia contemporanea. La tradizione e lo studio delle culture umane ci ha reso, infatti, dotti sul fatto che, pur esistendo in tutte le civiltà una qualche ritualizzazione che celebra l'unione tra due persone, questa nulla ha mai avuto a che fare con un desiderio omogeneo dei due partner, quello che i poeti chiamano “amore”. Il fatto che ci si sposi, si faccia famiglia, per amore è parte di una visione assai recente che inizia culturalmente con il Romanticismo ma non si concretizza, nelle pratiche sociali di larga scala, prima degli anni Sessanta del secolo scorso.

Prima di allora, e in una certa parte del mondo tutt'oggi, il matrimonio, o le sue trasformazioni, sono, anzitutto, mero strumento riproduttivo e conservativo del patrimonium (il matrimonium, invece, attiene al femminile e riguarda la cura della prole), mentre alcune culture riservano all'amante il ruolo della passione amorosa. Nelle società tradizionali, insomma, non c’è spazio per le scelte del singolo che sono sempre conseguenti alle necessità della famiglia, del gruppo, della società, per questo amore e matrimonio viaggiano su due binari diversi: al primo (laddove emerga come esigenza, e non è detto che emerga) non consegue necessariamente un progetto di vita comune, quanto il (fugace) spazio della passione; il secondo non definisce una relazione amorosa, quanto l'unione di due famiglie o gruppi parentali che, attraverso quell’unione, si garantiscono un qualche tipo di continuità e sopravvivenza.

Questa modalità di vivere la relazione di coppia è talmente lontana dal nostro modus operandi, da sembrare oggi retaggio di una cultura non solo liberticida ma finanche contraria alla natura umana, tanto che si fatica a credere fosse norma comunemente accettata e praticata.

La domanda che a questo punto sovviene, è la seguente: siamo davvero sicuri di possedere tutti gli strumenti per gestire adeguatamente questa libertà? Quali sono i rischi che stiamo correndo e che in passato sembravano non sussistere o sussistere in modo assolutamente marginale? Non è forse vero, e un po' paradossale, che, a differenza del passato, proprio oggi che amore e matrimonio sembrano coincidere, oggi che, insomma, ci sposiamo per amore, oggi il matrimonio non è mai stato così precario, tanto che le separazioni sembrano avviate a superare di gran lunga le unioni mettendo anzitutto in discussione, al di là dei singulti amorosi, il sistema ben più fondante e socialmente regolante della famiglia cui l'amore era, non a caso, subordinato fino appunto alla seconda metà del Novecento?

I motivi per cui assistiamo a questo fenomeno del tutto inusitato (soprattutto se teniamo in conto che in ogni società da che l'uomo è sapiens le unioni, la famiglia, rappresentano un elemento fondante per il funzionamento delle comunità -buono o cattivo che sia, su questo ci sarebbe molto da discutere) di destabilizzazione e fragilità delle unioni sono complessi e molteplici.

Per prendere un capo dell'intricata matassa, si pensi ad esempio alle ricerche di stampo scientifico che si divertono a tradurre in freddi processi biochimici la misteriosa poesia della natura umana. Questi scienziati pare abbiano individuato alcuni dei meccanismi che inducono l’amore, dimostrando che, quando ci innamoriamo e nelle fasi che succedono all'innamoramento, si scatenano nel nostro corpo tutta un serie di reazioni biochimiche che inducono sensazioni di euforia, attrazione, desiderio, passione e, poi, via via che la conoscenza dell'Altro si fa più profonda, tenerezza, calore, cura... Insomma una grande iniezione di sostanze psicotrope che stimolano il nostro cervello e ci spingono a volere determinate cose e a reagire in quel destinato modo che chiamiamo “amore”.

Ma, ahinoi, madre natura, ci informano queste ricercje, ci dà una spinta, non ci sorregge per sempre. Infatti, questa fantastica reazione pare destinata a durare ben poco: dai 35 ai 45 mesi (se ci pensate, un tempo base minimo per la cura di quel particolare cucciolo di uomo che per sopravvivere necessità, unico tra gli animali, di essere accudito per molto tempo), dopodiché il cervello, come un vero tossicodipendente, si assuefà e non reagisce più a quegli stimoli che un tempo lo facevano sballare. E’ a questo punto che, se non entrano in campo altri elementi, può iniziare la crisi.

Quali erano un tempo questi elementi che entravano in azione: be', uno su tutti: la subordinazione del femminile (economica, culturale, sociale, sessuale) che vincolava quest'ultimo ad una costrizione in cui era chiamato, volente o nolente, a fare famiglia; quindi tutta la sequela di vincolanti norme morali e dettami sociali che anteponevano le esigenze della società a quelle degli individui, in primo luogo gli individui ancora una volta di sesso femminile. Tali elementi garantivano una sostanziale continuità alla vita non solo della famiglia ma dello stesso amore coniugale, per quanto non sempre fossero in grado di garantire il benessere individuale.

Poi, sono sopraggiunte alcune delle più grandi e irrinunciabili (è bene sottolinearlo per non essere fraintesi) rivoluzioni del secolo scorso a mettere in discussione l'amore così come lo conoscevamo e come ci è stato tramandato: l'emancipazione del femminile, la libertà sessuale (anche segnata da più sofisticati sistemi di contraccezione), la legge sul divorzio e, in un certo senso, anche la legge sull'interruzione di gravidanza; insomma, una serie di grandi cambiamenti che hanno inciso profondamente su quelle libertà individuali la cui limitazione garantiva una certa coesione sociale.

L’errore, ovviamente, non è da imputare alla bontà di questi cambiamenti, tutti da ascrivere tra le grandi conquiste della civiltà umana (conquiste per cui, tra l'altro, ancora molto c'è da lavorare), semmai l'errore sta nell'aver creduto che questi cambiamenti non dovessero essere supportati da adeguati percorsi educativi in grado di sopperire, con un salto individuale di consapevolezza, laddove veniva meno la coercizione -errore per altro assai comune a tante fenomenologie che attualmente ci interrogano e ci soverchiano dal loro versante negativo.

Una delle caratteristiche di quello strano animale che, con un po’ di supponenza, si è autoproclamato sapiens, si concreta proprio nel fatto che spesso evolve senza predisporre opportuni rimedi capaci di rispondere con consapevolezza ai cambiamenti e alle innovazioni che sempre alterano la natura dei nostri interessi (ossia le cose a cui pensiamo) e alterano la natura dei nostri simboli (ossia le cose con cui pensiamo) e infine alterano le nostra comunità (ossia il terreno di coltura in cui i pensieri trovano approdo e generano consuetudini).

Così, nell’era dell'amore liquido, come Bauman definisce le relazioni di coppia del nostro tempo, alcune straordinarie rivoluzioni come -appunto- la libertà sessuale, l'emancipazione femminile, il divorzio, sembrano non essere riuscite a produrre, almeno su larga scala, la loro reale carica innovativa e evolutiva, e sempre più spesso si palesano, invece, quali involuzioni che generano fenomeni di malessere sociale non solo incontrollato, ma, ancor prima e ancor peggio, insaputo.

Le conseguenze delle grandi rivoluzioni cui è stato sottoposto l'umano negli ultimi cento anni, rivoluzioni che non hanno paragone per intensità e propulsività, con nessuna delle epoche storiche che la civiltà umana ha attraversato, hanno indotto profondi mutamenti nel pensiero e nelle pratiche degli uomini contemporanei le cui prime e più gravose influenze si registrano, evidentemente, nei singoli individui e nelle loro relazioni primarie per poi riverberarsi nella società tutta.

Alla luce di queste riflessioni, l'intervento sulla coppia in crisi deve emanciparsi dalla sua configurazione riduttivamente segnata dalla separazione, per aprirsi al suo carattere eminentemente preventivo che lavora nella crisi o addirittura la anticipa, ma non per ricongiungere o per sparare, ma affinché ogni coppia, e i suoi singoli componenti, trovino il modo migliore per vivere la loro relazione amorosa, sia che questo avvenga all’interno della coppia o aiutandoli a scinderla per costruire soluzioni più adeguate ma sempre segnate da forme di amore costruttive e propositive e, tanto più presenti e manifeste, quanto più la storia della coppia sarà stata generativa di esperienze, e soprattutto di quella esperienza che è la nascita di un figlio.

Ma fare cultura di un nuovo modo di intendere e vivere l'amore significa non solo lavorare sulle emergenze delle coppie in crisi, ma anche lavorare affinché queste coppie si approccino alla cura prima che la crisi sia inevitabilmente volta alla sola possibilità della separazione o di una riparazione forzosa, e non per una qualche inibizione al divorzio di ispirazione religiosa, ma perché le diverse e molteplici questioni, che abbiamo cercato, seppur brevemente, di elencare, sempre più rivelano la crisi non tanto a partire dal classico: “Non ti amo più”, ma, per quanto non sempre consapevolmente, dall'insolito e post-moderno: “Io non so più come amare”.

Costruire una nuova cultura dell'amore coniugale, significa allora lavorare con le giovani coppie che si stanno formando, attraverso laici dispositivi di approccio alla vita a due e, più in generale, alla vita famigliare. E significa lavorare nelle scuole, e comunque con le nuove generazioni, ribaltando completamente quell'eufemismo dell'amore che è l'educazione all'affettività, per introdurre, in ognuno di questi percorsi, alcuni elementi fondamentali come, ad esempio, oltre alle già citate rivisitazioni del concetto di dipendenza, di libertà e di felicità…

Una sana educazione al conflitto, affinché non si manifesti la sua sola configurazione distruttiva o la sua negativa rimozione, ma lo si sappia fare convivere positivamente e costruttivamente come fondamentale e ineludibile elemento di crescita che, per altro, prescinde dalla coppia ma si apre alle relazioni tutte.

Una sana educazione alla sessualità, in grado di fare emergere la dimensione giocosa e feconda dell'atto sessuale, deprimendo al contempo ogni forma di possesso in cui l'Altro che dico di amare é ridotto da soggetto ad oggetto, nel senso di qualcosa di determinabile e indipendente dalla sua storia e della storia che accade attorno a lui e, quindi, non soggetto alla mutevolezza dei cambiamenti -e questo è lavoro che coinvolge non solo le nuove generazioni ma anche, e forse soprattutto, i genitori, i neo genitori dove la possessività fa il suo esordio e li va, non soppressa, poiché ha una sua funzionalità evolutiva, ma sicuramente regolata.

E, non per ultima, una sana educazione al desiderio, materia mai come oggi così difficile da trattare, in una società che spinge, in ogni dove e senza soluzione di continuità, alla reificazione dei desideri, tanto che, a forza di vedere i nostri desideri materializzarsi stiamo perdendo la capacità di desiderare, fors'anche di desiderare l'amore.


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Nel marzo 2012 ho avuto il piacere di pubblicare, per i tipi di Firera & Liuzzo Publisching, un libro dal titolo "L'Amore alla Fine dell'Amore" in cui affrontavo il tema delle crisi d'amore che portano alla separazione e al divorzio e alla possibilità che queste siano gestite attraverso un percorso che non neghi l'utopia che un nuovo amore, un amore diverso, possa sorgere dalle ceneri del precedente, non per una qualche beghina ideologia antidivorzista, ma affinché, scegliendo la strada del farsi del bene, anziché quella del farsi del male, si possa aspirare al pieno e copioso accesso ad un benessere che veda presente e futuro, da coniugi o da divorziati, come risorsa generativa e non come pretesto distruttivo, per sé e, soprattutto, per gli eventuali figli coinvolti.

Con il medesimo intento, ho proseguito questa riflessione in un secondo volume dal titolo "Amore in Mediato" dove invece, ho allargato il campo delle osservazioni non solo alla coppia, ma alla coppia nel contesto epocale in cui viviamo che, a mio avviso, può ugualmente dirsi “dell'amore alla fine dell'amore”, denunciando cioè come l'amore, almeno per come lo conosciamo e pratichiamo, è arrivato al suo capolinea e necessita quindi di una riconfigurazione che ci aiuti meglio a comprendere cosa è diventato e come poterne adeguatamente fruire.

 Amore in MediadoMi piace definire questo contesto epocale in cui i vecchi paradigmi di definizione dell'amore sembrano non più corrispondere con le esigenze e gli agiti degli uomini, con le parole con cui Umberto Eco, nel suo "Postille al nome della rosa", descrive il concetto di post-moderno, periodo storico in cui, secondo molti, siamo immersi: 

“Penso all'atteggiamento postmoderno," scrive Eco, "come quello di chi ami una donna e, molto colto, sappia che non può dirle: 'Ti amo disperatamente', perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia, c'è una soluzione. Potrà dire: 'Come direbbe Liala, ti amo disperatamente'. A questo punto, avrebbe evitato la falsa innocenza, costui avrà però detto alla donna ciò che voleva dire: che l'ama, ma che l'ama in un'epoca di innocenza perduta.”.

A ben vedere, sembrerebbe proprio che la gran parte delle fenomenologie che caratterizzano la nostra epoca costringano l'umano, laddove voglia comprenderle ma, soprattutto, cercare di evitarne gli effetti negativi, ad abbandonare questo sguardo ingenuo di cui dice Eco. Si tratta di una richiesta del tutto nuova, che mai prima d'ora era emersa con questa potenza -potenza che pare aumentare, interrogando e fagocitando nuove aree della società, con una progressione direttamente proporzionale agli (apparenti) livelli di libertà che la stessa società dispone a favore dei suoi individui.

Dobbiamo rifarci a Erich Fromm per comprendere questa particolare configurazione dell'uomo post-moderno, quando, in "Fuga dalla libertà", ci fa riflettere su come la condizione di schiavitù che ha caratterizzato la vita della gran parte degli umani vissuti nelle epoche che hanno preceduto la fase di progressiva democratizzazione del globo (per altro ancora in progress), vada anche letta come deresponsabilizzazione delle scelte che erano demandate a dio, al re, al principe, al feudatario, al padrone e, via via, a tutte le figure della gerarchia sociale: il prete, il medico, l'insegnante, le forze dell'ordine... Condizione che se, appunto, evirava spazi di libertà, concedeva al contempo quella "spensieratezza" dell'esistere, tipica ad esempio dell'infanzia, quando qualcuno decide per noi e noi, pur subendo quella scelta, siamo sottratti alla fatica necessaria cui la scelta chiama e -appunto- alla responsabilità delle sue possibili conseguenze.

Si pensi, per fare un esempio ancora molto recente di questa trasformazione, che quindi gran parte di noi ha avuto modo di sperimentare personalmente, al rapporto che avevamo fino a qualche decennio or sono con alcune figure emblematiche della società, come il medico o l'insegnante, la cui parola-verità era per lo più indiscutibile e che ora, invece, perduta (per diverse concause) la loro aurea sociale, sono largamente messi in discussione con, ad esempio, consulti di varia tipologia e natura prima di decidere -appunto- come curarsi e da chi farsi curare o, nel caso della scuola, con intrusioni della famiglia non solo negli aspetti educativi, ma anche nella didattica.

Insomma, come bene dice Edgar Morin: l’uomo è per natura un animale complesso, la differenza col passato è che oggi questa complessità ci salta addosso, non possiamo più evitarla, dobbiamo farcene carico ognuno personalmente. Le regole, i dettami morali, le ritualità che garantivano una certa coesione sociale si stanno progressivamente sfaldando sotto i colpi di piccone di ogni legittima richiesta di libertà individuale, il problema è che questa libertà, per essere gestita adeguatamente e non fare danni, deve comprendere anche elevati livelli di consapevolezza di sé, del mondo e dei fenomeni che lo sollecitano, quella che appunto Eco chiama "perdita di ingenuità".

Il rischio di una libertà non accompagnata da adeguati strumenti per gestirla, porta, infatti, paradossalmente, ad una obversione della libertà stessa che si accartoccia su se stessa quando ognuno di noi è, ad esempio, chiamato a prendere decisioni su argomenti talmente complessi (si pensi alla genetica, al nucleare, all'eutanasia) da rendere praticamente impossibile la scelta, se non optando per vie puramente emotive -e, in effetti, le fenomenologie e le questioni che attraversano la nostra società, e per cui le persone sono chiamate a scegliere, prevedono una tale e sofisticata conoscenza e su una tale quantità di problematiche che l'uomo comune, pur istruito, non è in grado di affrontare, anzi, su cui si dividono gli stessi esperti.

Tra queste scelte complesse cui siamo chiamati l'amore, e in particolare quell’amore che diviene coniugale e si connatura nella famiglia, non fa eccezione, anzi, in un certo senso, quando focalizziamo sull'amore coniugale e sulla famiglia le riflessioni appena trattate, le cose si fanno assai più insidiose. Vediamo come...

Anzitutto dobbiamo riflettere sul carattere di novità della famiglia contemporanea. La tradizione e lo studio delle culture umane ci ha reso, infatti, dotti sul fatto che, pur esistendo in tutte le civiltà una qualche ritualizzazione che celebra l'unione tra due persone, questa nulla ha mai avuto a che fare con un desiderio omogeneo dei due partner, quello che i poeti chiamano “amore”. Il fatto che ci si sposi, si faccia famiglia, per amore è parte di una visione assai recente che inizia culturalmente con il Romanticismo ma non si concretizza, nelle pratiche sociali di larga scala, prima degli anni Sessanta del secolo scorso.

Prima di allora, e in una certa parte del mondo tutt'oggi, il matrimonio, o le sue trasformazioni, sono, anzitutto, mero strumento riproduttivo e conservativo del patrimonium (il matrimonium, invece, attiene al femminile e riguarda la cura della prole), mentre alcune culture riservano all'amante il ruolo della passione amorosa. Nelle società tradizionali, insomma, non c’è spazio per le scelte del singolo che sono sempre conseguenti alle necessità della famiglia, del gruppo, della società, per questo amore e matrimonio viaggiano su due binari diversi: al primo (laddove emerga come esigenza, e non è detto che emerga) non consegue necessariamente un progetto di vita comune, quanto il (fugace) spazio della passione; il secondo non definisce una relazione amorosa, quanto l'unione di due famiglie o gruppi parentali che, attraverso quell’unione, si garantiscono un qualche tipo di continuità e sopravvivenza.

Questa modalità di vivere la relazione di coppia è talmente lontana dal nostro modus operandi, da sembrare oggi retaggio di una cultura non solo liberticida ma finanche contraria alla natura umana, tanto che si fatica a credere fosse norma comunemente accettata e praticata.

La domanda che a questo punto sovviene, è la seguente: siamo davvero sicuri di possedere tutti gli strumenti per gestire adeguatamente questa libertà? Quali sono i rischi che stiamo correndo e che in passato sembravano non sussistere o sussistere in modo assolutamente marginale? Non è forse vero, e un po' paradossale, che, a differenza del passato, proprio oggi che amore e matrimonio sembrano coincidere, oggi che, insomma, ci sposiamo per amore, oggi il matrimonio non è mai stato così precario, tanto che le separazioni sembrano avviate a superare di gran lunga le unioni mettendo anzitutto in discussione, al di là dei singulti amorosi, il sistema ben più fondante e socialmente regolante della famiglia cui l'amore era, non a caso, subordinato fino appunto alla seconda metà del Novecento?

I motivi per cui assistiamo a questo fenomeno del tutto inusitato (soprattutto se teniamo in conto che in ogni società da che l'uomo è sapiens le unioni, la famiglia, rappresentano un elemento fondante per il funzionamento delle comunità -buono o cattivo che sia, su questo ci sarebbe molto da discutere) di destabilizzazione e fragilità delle unioni sono complessi e molteplici.

Per prendere un capo dell'intricata matassa, si pensi ad esempio alle ricerche di stampo scientifico che si divertono a tradurre in freddi processi biochimici la misteriosa poesia della natura umana. Questi scienziati pare abbiano individuato alcuni dei meccanismi che inducono l’amore, dimostrando che, quando ci innamoriamo e nelle fasi che succedono all'innamoramento, si scatenano nel nostro corpo tutta un serie di reazioni biochimiche che inducono sensazioni di euforia, attrazione, desiderio, passione e, poi, via via che la conoscenza dell'Altro si fa più profonda, tenerezza, calore, cura... Insomma una grande iniezione di sostanze psicotrope che stimolano il nostro cervello e ci spingono a volere determinate cose e a reagire in quel destinato modo che chiamiamo “amore”.

Ma, ahinoi, madre natura, ci informano queste ricercje, ci dà una spinta, non ci sorregge per sempre. Infatti, questa fantastica reazione pare destinata a durare ben poco: dai 35 ai 45 mesi (se ci pensate, un tempo base minimo per la cura di quel particolare cucciolo di uomo che per sopravvivere necessità, unico tra gli animali, di essere accudito per molto tempo), dopodiché il cervello, come un vero tossicodipendente, si assuefà e non reagisce più a quegli stimoli che un tempo lo facevano sballare. E’ a questo punto che, se non entrano in campo altri elementi, può iniziare la crisi.

Quali erano un tempo questi elementi che entravano in azione: be', uno su tutti: la subordinazione del femminile (economica, culturale, sociale, sessuale) che vincolava quest'ultimo ad una costrizione in cui era chiamato, volente o nolente, a fare famiglia; quindi tutta la sequela di vincolanti norme morali e dettami sociali che anteponevano le esigenze della società a quelle degli individui, in primo luogo gli individui ancora una volta di sesso femminile. Tali elementi garantivano una sostanziale continuità alla vita non solo della famiglia ma dello stesso amore coniugale, per quanto non sempre fossero in grado di garantire il benessere individuale.

Poi, sono sopraggiunte alcune delle più grandi e irrinunciabili (è bene sottolinearlo per non essere fraintesi) rivoluzioni del secolo scorso a mettere in discussione l'amore così come lo conoscevamo e come ci è stato tramandato: l'emancipazione del femminile, la libertà sessuale (anche segnata da più sofisticati sistemi di contraccezione), la legge sul divorzio e, in un certo senso, anche la legge sull'interruzione di gravidanza; insomma, una serie di grandi cambiamenti che hanno inciso profondamente su quelle libertà individuali la cui limitazione garantiva una certa coesione sociale.

L’errore, ovviamente, non è da imputare alla bontà di questi cambiamenti, tutti da ascrivere tra le grandi conquiste della civiltà umana (conquiste per cui, tra l'altro, ancora molto c'è da lavorare), semmai l'errore sta nell'aver creduto che questi cambiamenti non dovessero essere supportati da adeguati percorsi educativi in grado di sopperire, con un salto individuale di consapevolezza, laddove veniva meno la coercizione -errore per altro assai comune a tante fenomenologie che attualmente ci interrogano e ci soverchiano dal loro versante negativo.

Una delle caratteristiche di quello strano animale che, con un po’ di supponenza, si è autoproclamato sapiens, si concreta proprio nel fatto che spesso evolve senza predisporre opportuni rimedi capaci di rispondere con consapevolezza ai cambiamenti e alle innovazioni che sempre alterano la natura dei nostri interessi (ossia le cose a cui pensiamo) e alterano la natura dei nostri simboli (ossia le cose con cui pensiamo) e infine alterano le nostra comunità (ossia il terreno di coltura in cui i pensieri trovano approdo e generano consuetudini).

Così, nell’era dell'amore liquido, come Bauman definisce le relazioni di coppia del nostro tempo, alcune straordinarie rivoluzioni come -appunto- la libertà sessuale, l'emancipazione femminile, il divorzio, sembrano non essere riuscite a produrre, almeno su larga scala, la loro reale carica innovativa e evolutiva, e sempre più spesso si palesano, invece, quali involuzioni che generano fenomeni di malessere sociale non solo incontrollato, ma, ancor prima e ancor peggio, insaputo.

Le conseguenze delle grandi rivoluzioni cui è stato sottoposto l'umano negli ultimi cento anni, rivoluzioni che non hanno paragone per intensità e propulsività, con nessuna delle epoche storiche che la civiltà umana ha attraversato, hanno indotto profondi mutamenti nel pensiero e nelle pratiche degli uomini contemporanei le cui prime e più gravose influenze si registrano, evidentemente, nei singoli individui e nelle loro relazioni primarie per poi riverberarsi nella società tutta.

Alla luce di queste riflessioni, l'intervento sulla coppia in crisi deve emanciparsi dalla sua configurazione riduttivamente segnata dalla separazione, per aprirsi al suo carattere eminentemente preventivo che lavora nella crisi o addirittura la anticipa, ma non per ricongiungere o per sparare, ma affinché ogni coppia, e i suoi singoli componenti, trovino il modo migliore per vivere la loro relazione amorosa, sia che questo avvenga all’interno della coppia o aiutandoli a scinderla per costruire soluzioni più adeguate ma sempre segnate da forme di amore costruttive e propositive e, tanto più presenti e manifeste, quanto più la storia della coppia sarà stata generativa di esperienze, e soprattutto di quella esperienza che è la nascita di un figlio.

Ma fare cultura di un nuovo modo di intendere e vivere l'amore significa non solo lavorare sulle emergenze delle coppie in crisi, ma anche lavorare affinché queste coppie si approccino alla cura prima che la crisi sia inevitabilmente volta alla sola possibilità della separazione o di una riparazione forzosa, e non per una qualche inibizione al divorzio di ispirazione religiosa, ma perché le diverse e molteplici questioni, che abbiamo cercato, seppur brevemente, di elencare, sempre più rivelano la crisi non tanto a partire dal classico: “Non ti amo più”, ma, per quanto non sempre consapevolmente, dall'insolito e post-moderno: “Io non so più come amare”.

Costruire una nuova cultura dell'amore coniugale, significa allora lavorare con le giovani coppie che si stanno formando, attraverso laici dispositivi di approccio alla vita a due e, più in generale, alla vita famigliare. E significa lavorare nelle scuole, e comunque con le nuove generazioni, ribaltando completamente quell'eufemismo dell'amore che è l'educazione all'affettività, per introdurre, in ognuno di questi percorsi, alcuni elementi fondamentali come, ad esempio, oltre alle già citate rivisitazioni del concetto di dipendenza, di libertà e di felicità…

Una sana educazione al conflitto, affinché non si manifesti la sua sola configurazione distruttiva o la sua negativa rimozione, ma lo si sappia fare convivere positivamente e costruttivamente come fondamentale e ineludibile elemento di crescita che, per altro, prescinde dalla coppia ma si apre alle relazioni tutte.

Una sana educazione alla sessualità, in grado di fare emergere la dimensione giocosa e feconda dell'atto sessuale, deprimendo al contempo ogni forma di possesso in cui l'Altro che dico di amare é ridotto da soggetto ad oggetto, nel senso di qualcosa di determinabile e indipendente dalla sua storia e della storia che accade attorno a lui e, quindi, non soggetto alla mutevolezza dei cambiamenti -e questo è lavoro che coinvolge non solo le nuove generazioni ma anche, e forse soprattutto, i genitori, i neo genitori dove la possessività fa il suo esordio e li va, non soppressa, poiché ha una sua funzionalità evolutiva, ma sicuramente regolata.

E, non per ultima, una sana educazione al desiderio, materia mai come oggi così difficile da trattare, in una società che spinge, in ogni dove e senza soluzione di continuità, alla reificazione dei desideri, tanto che, a forza di vedere i nostri desideri materializzarsi stiamo perdendo la capacità di desiderare, fors'anche di desiderare l'amore.


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Primo: come amare?


La gran parte delle domande che accompagnano le crisi d'amore si riassume in due evocazioni: mi ama? Non mi ama? Tuttavia, basta sviscerarle solo un poco per comprendere che, dietro i due quesiti, si cela la più concreta necessità di essere amati in modo diverso da come in quel momento ci sentiamo amati.

Il problema, dunque, anche al di là delle piccole e grandi necessità di ogni coppia, non è mai amare o essere amati. La questione è, semmai, come amare, affinché questa forza miracolosa che è l'amore produca il più a lungo possibile i suoi effetti benefici e non venga invece intralciata da ostacoli che, più spesso di quanto si sappia o creda, nulla hanno a che fare con l'amore.

“Come amare” non risponde agli istinti riproduttivi della sopravvivenza della specie, ma a dettami culturali, che si differenziano di epoca in epoca e di territorio in territorio, di persona in persona.

 Amore in MediadoIl tema non è certo nuovo, probabilmente si pone da che esiste l'uomo, e ne sono testimonianza i milioni di romanzi, saggi, poemi e opere d’arte creati a tal proposito. Tuttavia, la mia esperienza con tante coppie finite nel cortocircuito della crisi, mi fa ritenere che mai come in questa nostra epoca la questione incalzi con una certa urgenza e per cause che non hanno necessariamente a che fare con l'amore.

Oggi, infatti, l'amore sembra attraversato da una condizione di crisi universale che sempre più prescinde dai palpiti del cuore ed è invece fortemente influenzato da una serie di cambiamenti sociali e culturali che, per quanto presentatisi come opportunità benefiche e evolutive, hanno invece finito per determinare una serie di difficoltà da cui, soprattutto le nuove coppie (ma non solo) faticano ad evadere, subendone conseguenze negative e, a volte, anche nefaste.

Sia per quel che concerne il discorso più generico sull'Amore, che per quel che riguarda le sue ricadute pratiche nella vita di ogni giorno, è di fondamentale importanza, allora, osservare come si è trasformato questo bellissimo gioco che da sempre coinvolge e spesso stravolge la nostra specie, unici tra gli animali ad aver tanto sofisticato il processo che volge alla nostra riproduzione da prevedere persino la possibilità di non riprodursi.

Proveremo ad approfondire nei prossimi articoli.


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La gran parte delle domande che accompagnano le crisi d'amore si riassume in due evocazioni: mi ama? Non mi ama? Tuttavia, basta sviscerarle solo un poco per comprendere che, dietro i due quesiti, si cela la più concreta necessità di essere amati in modo diverso da come in quel momento ci sentiamo amati.

Il problema, dunque, anche al di là delle piccole e grandi necessità di ogni coppia, non è mai amare o essere amati. La questione è, semmai, come amare, affinché questa forza miracolosa che è l'amore produca il più a lungo possibile i suoi effetti benefici e non venga invece intralciata da ostacoli che, più spesso di quanto si sappia o creda, nulla hanno a che fare con l'amore.

“Come amare” non risponde agli istinti riproduttivi della sopravvivenza della specie, ma a dettami culturali, che si differenziano di epoca in epoca e di territorio in territorio, di persona in persona.

 Amore in MediadoIl tema non è certo nuovo, probabilmente si pone da che esiste l'uomo, e ne sono testimonianza i milioni di romanzi, saggi, poemi e opere d’arte creati a tal proposito. Tuttavia, la mia esperienza con tante coppie finite nel cortocircuito della crisi, mi fa ritenere che mai come in questa nostra epoca la questione incalzi con una certa urgenza e per cause che non hanno necessariamente a che fare con l'amore.

Oggi, infatti, l'amore sembra attraversato da una condizione di crisi universale che sempre più prescinde dai palpiti del cuore ed è invece fortemente influenzato da una serie di cambiamenti sociali e culturali che, per quanto presentatisi come opportunità benefiche e evolutive, hanno invece finito per determinare una serie di difficoltà da cui, soprattutto le nuove coppie (ma non solo) faticano ad evadere, subendone conseguenze negative e, a volte, anche nefaste.

Sia per quel che concerne il discorso più generico sull'Amore, che per quel che riguarda le sue ricadute pratiche nella vita di ogni giorno, è di fondamentale importanza, allora, osservare come si è trasformato questo bellissimo gioco che da sempre coinvolge e spesso stravolge la nostra specie, unici tra gli animali ad aver tanto sofisticato il processo che volge alla nostra riproduzione da prevedere persino la possibilità di non riprodursi.

Proveremo ad approfondire nei prossimi articoli.


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Ti Amo... da vicino-lontano

L'amore un ossimoro che sposa e congiunge vicinanza e lontananza in un unicum prolifico.

Ci innamoriamo di un punto lungo la lontana linea dell'orizzonte, qualcosa che luccica ed è come-me ma non-è-me e, per questo, mi attrae: perché mi somiglia, ma mai fino al punto da essere coincidente. Poi la lontananza si affievolisce, il punto luminoso si increspa di ombre: ci si avvicina, ci si conosce, si diventa intimi, a volte tanto intimi da non essere più capaci di giocare a quel meraviglioso gioco che un tempo era il ri-conoscersi, il conoscersi ogni giorno nuovamente. Si diventa scontati e si sconta il prezzo, altissimo, di non aver imparato a giocare al gioco dell'amore, così si finisce di nuovo per allontanarsi, come recita una bellissima canzone di Pink Floyd:

“Day after day, love turns grey / Like the skin of a dying man. / Night after night, we pretend its all right / But I have grown older and / You have grown colder and / Nothing is very much fun any more...” .

“Giorno dopo giorno, l'amore diventa grigio / Come la pelle di un uomo che sta morendo. / Notte dopo notte, pretendiamo di avere ragione / Ma io sono diventato vecchio e / Tu sei diventata fredda e / Non c'è più nulla che sia davvero divertente..."

 Amore in MediadoMantenere questa vicinanza-lontananza dovrebbe, invece, essere il trucco: “nutrire da vicino la mancanza dell'Altro-mancante”, potremmo dire, usando un gioco di parole.

Eppure io amo Luca, Paola, Francesco, Lucia e li amo se ci sono, li amo perché “ci sono”, se fossero “mancanti” non li amerei. Anzi, spesso la crisi si manifesta proprio quando l'Altro si fa mancante, si assenta, disperde in una moltitudine di rigagnoli quell'attenzione che, invece, prima, era riservata solo a me.

Certo, è proprio così. Il concetto di Altro-mancante cui ci riferiamo, lungi dal rappresentare “l'Altro-che-non-c'è” palesando il suo aspetto negativo, vuole farsi portavoce della famosa riflessione socratica quando, nel “Simposio” , il grande pensatore ateniese, sostiene che l'amore non è desiderio di bellezza, ma desiderio della bellezza di cui siamo privi, desiderio di ciò di cui siamo mancanti.

È, insomma, ciò che a noi manca e che crediamo di trovare nell'Altro che ci spinge a cercarlo, ed è quando due mancanze si incontrano che nasce l'amore: la metà di me che non ho e che per un tratto di strada (o per sempre), collima con un'altra metà -o così mi sforzo che avvenga.


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L'amore un ossimoro che sposa e congiunge vicinanza e lontananza in un unicum prolifico.

Ci innamoriamo di un punto lungo la lontana linea dell'orizzonte, qualcosa che luccica ed è come-me ma non-è-me e, per questo, mi attrae: perché mi somiglia, ma mai fino al punto da essere coincidente. Poi la lontananza si affievolisce, il punto luminoso si increspa di ombre: ci si avvicina, ci si conosce, si diventa intimi, a volte tanto intimi da non essere più capaci di giocare a quel meraviglioso gioco che un tempo era il ri-conoscersi, il conoscersi ogni giorno nuovamente. Si diventa scontati e si sconta il prezzo, altissimo, di non aver imparato a giocare al gioco dell'amore, così si finisce di nuovo per allontanarsi, come recita una bellissima canzone di Pink Floyd:

“Day after day, love turns grey / Like the skin of a dying man. / Night after night, we pretend its all right / But I have grown older and / You have grown colder and / Nothing is very much fun any more...” .

“Giorno dopo giorno, l'amore diventa grigio / Come la pelle di un uomo che sta morendo. / Notte dopo notte, pretendiamo di avere ragione / Ma io sono diventato vecchio e / Tu sei diventata fredda e / Non c'è più nulla che sia davvero divertente..."

 Amore in MediadoMantenere questa vicinanza-lontananza dovrebbe, invece, essere il trucco: “nutrire da vicino la mancanza dell'Altro-mancante”, potremmo dire, usando un gioco di parole.

Eppure io amo Luca, Paola, Francesco, Lucia e li amo se ci sono, li amo perché “ci sono”, se fossero “mancanti” non li amerei. Anzi, spesso la crisi si manifesta proprio quando l'Altro si fa mancante, si assenta, disperde in una moltitudine di rigagnoli quell'attenzione che, invece, prima, era riservata solo a me.

Certo, è proprio così. Il concetto di Altro-mancante cui ci riferiamo, lungi dal rappresentare “l'Altro-che-non-c'è” palesando il suo aspetto negativo, vuole farsi portavoce della famosa riflessione socratica quando, nel “Simposio” , il grande pensatore ateniese, sostiene che l'amore non è desiderio di bellezza, ma desiderio della bellezza di cui siamo privi, desiderio di ciò di cui siamo mancanti.

È, insomma, ciò che a noi manca e che crediamo di trovare nell'Altro che ci spinge a cercarlo, ed è quando due mancanze si incontrano che nasce l'amore: la metà di me che non ho e che per un tratto di strada (o per sempre), collima con un'altra metà -o così mi sforzo che avvenga.


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La giusta distanza

Arthur Schopenhauer, nel suo “Parerga e paralipomena”, racconta la famosa storiella di due porcospini (ripresa successivamente anche da Freud) che s'incontrano in un giorno d'inverno. 

Fa molto freddo e i due, per evitare di morire assiderati, decidono di accoccolarsi l'uno accanto all'altro ma, appena ci provano, ecco che le spine che contornano i loro corpi entrano in azione producendo un così forte dolore da costringerli ad allontanarsi. Tuttavia, la notte incombe, il freddo aumenta e quel calore provato, pur per poco, pur immediatamente sviato dal dolore, è stato qualcosa di così piacevole... come mai avevano provato prima. Nuovamente, allora, tornano ognuno a cercare il calore dell'Altro ma, miodio, questa volta il dolore è così intenso, che i due fanno un balzo indietro, urlando.

Ora, la sofferenza è tale che i due dovrebbero desistere, eppure qualcosa inspiegabilmente ancora li attrae, come se capissero che, al di là del freddo che li ha fatti incontrare, c’è -in qualche modo- una gioia più profonda che dipende davvero dalla capacità di accettare il rischio di quel dolore per riprovare ancora il piacere di quel calore. 

 Amore in MediadoCosì, non demordono. Ci riprovano: ancora e ancora e, piano piano, con gli opportuni accorgimenti, trovano una distanza adeguata, la migliore, affinché dolore e piacere siano sufficientemente commisurati in una giusta dose di ben-essere .

Ecco una bella metafora del lavoro cui è chiamata ogni coppia d'amore: “trovare la giusta distanza affinché dolore e piacere siano sufficientemente commisurati in una giusta dose di ben-essere”, trovare la giusta distanza affinché il dolore che proviamo per ciò che la presenza dell'Altro di me sottrae o minaccia di sottrarre, sia adeguatamente ricompensato dal piacere e dal benessere che, invece, la sua presenza arreca.

Infatti, per quanto l'uomo sia un animale sociale che si desidera e si cerca (e non solo per riprodursi), avvicinarsi all'Altro fino al punto di vivere con lui sotto lo stesso tetto, non è mai cosa semplice, e oggi tanto più di ieri .

Vivere con l'Altro significa far sì che quel «noi» che si deve necessariamente generare affinché il singolo si trasformi in coppia, si accaparri almeno un pezzo di ognuno degli «io» in gioco e che, ugualmente, ogni «io» si doni (doni la sua «i» o la sua «o»), affinché la forma del «noi» possa compiersi.

Tuttavia, questa manovra, pur complessa, è solo metà dell'opera da realizzare per proteggersi dalla crisi. 

Infatti, mentre si costruisce il «noi», risulta altrettanto necessario che l'«io» di ognuno non scompaia, non finisca schiacciato dal quel «noi» senza più riconoscere chi è e cosa vuole, perdendo cioè quell'identità di cui l'Altro «io», quello del partner, si era innamorato.

Emerge così, che questa distanza da cercare è qualcosa che implica, al contempo, una vicinanza («noi») e una lontananza («io»), palesando quel carattere paradossale dell'amore che incontreremo ancora molte volte in questo nostro girovagare tra i suoi confini.


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Arthur Schopenhauer, nel suo “Parerga e paralipomena”, racconta la famosa storiella di due porcospini (ripresa successivamente anche da Freud) che s'incontrano in un giorno d'inverno. 

Fa molto freddo e i due, per evitare di morire assiderati, decidono di accoccolarsi l'uno accanto all'altro ma, appena ci provano, ecco che le spine che contornano i loro corpi entrano in azione producendo un così forte dolore da costringerli ad allontanarsi. Tuttavia, la notte incombe, il freddo aumenta e quel calore provato, pur per poco, pur immediatamente sviato dal dolore, è stato qualcosa di così piacevole... come mai avevano provato prima. Nuovamente, allora, tornano ognuno a cercare il calore dell'Altro ma, miodio, questa volta il dolore è così intenso, che i due fanno un balzo indietro, urlando.

Ora, la sofferenza è tale che i due dovrebbero desistere, eppure qualcosa inspiegabilmente ancora li attrae, come se capissero che, al di là del freddo che li ha fatti incontrare, c’è -in qualche modo- una gioia più profonda che dipende davvero dalla capacità di accettare il rischio di quel dolore per riprovare ancora il piacere di quel calore. 

 Amore in MediadoCosì, non demordono. Ci riprovano: ancora e ancora e, piano piano, con gli opportuni accorgimenti, trovano una distanza adeguata, la migliore, affinché dolore e piacere siano sufficientemente commisurati in una giusta dose di ben-essere .

Ecco una bella metafora del lavoro cui è chiamata ogni coppia d'amore: “trovare la giusta distanza affinché dolore e piacere siano sufficientemente commisurati in una giusta dose di ben-essere”, trovare la giusta distanza affinché il dolore che proviamo per ciò che la presenza dell'Altro di me sottrae o minaccia di sottrarre, sia adeguatamente ricompensato dal piacere e dal benessere che, invece, la sua presenza arreca.

Infatti, per quanto l'uomo sia un animale sociale che si desidera e si cerca (e non solo per riprodursi), avvicinarsi all'Altro fino al punto di vivere con lui sotto lo stesso tetto, non è mai cosa semplice, e oggi tanto più di ieri .

Vivere con l'Altro significa far sì che quel «noi» che si deve necessariamente generare affinché il singolo si trasformi in coppia, si accaparri almeno un pezzo di ognuno degli «io» in gioco e che, ugualmente, ogni «io» si doni (doni la sua «i» o la sua «o»), affinché la forma del «noi» possa compiersi.

Tuttavia, questa manovra, pur complessa, è solo metà dell'opera da realizzare per proteggersi dalla crisi. 

Infatti, mentre si costruisce il «noi», risulta altrettanto necessario che l'«io» di ognuno non scompaia, non finisca schiacciato dal quel «noi» senza più riconoscere chi è e cosa vuole, perdendo cioè quell'identità di cui l'Altro «io», quello del partner, si era innamorato.

Emerge così, che questa distanza da cercare è qualcosa che implica, al contempo, una vicinanza («noi») e una lontananza («io»), palesando quel carattere paradossale dell'amore che incontreremo ancora molte volte in questo nostro girovagare tra i suoi confini.


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Perché amare non basta

Anna e Patrizio vennero in studio dicendo che la loro vita era diventata un inferno e che altro non c'era che separarsi.

Scoprimmo, invece, nel corso delle nostre riflessioni, che il male oscuro che li aveva colpiti poteva essere medicato; che le scenate folli di cui Patrizio era protagonista (senza sapere, peraltro, da cosa scaturissero), potevano essere curate, proprio da Anna, con opportuni stratagemmi e non contrastate con mutismi, abbandoni, accesi conflitti che altro non facevano che esasperare quelle crisi.

Forse un approccio più ortodosso avrebbe diagnosticato il disagio di Patrizio come Disturbo Ossessivo Compulsivo, un DOC da relazione, con conseguente profilo etichettante e, magari, somministrazione di farmaci.

 Amore in MediadoE, in effetti, Patrizio, mostrava tutti i sintomi di questo malessere: con la sua ricerca esasperata del rapporto perfetto, della perfetta sintonia sessuale, insieme all'incapacità di accettare gli umori negativi di Anna, le sue giornate no in cui aveva bisogno di essere rassicurata, anziché rassicurare.

Ma l'ansia di Patrizio non gli permetteva di stare insieme a una persona con le sue normali fragilità, lui sembrava aver bisogno di un'entità più o meno divina e, quando non la trovava, iniziavano i ripensamenti, l'ossessivo “t'amo non t'amo” che aveva portato a sfogliare ogni margherita del pur nutrito e paziente campo di Anna. Negli ultimi tempi poi, “le rogne”, come le chiamava lui, erano diventate praticamente quotidiane e con loro gli “esami” cui Patrizio sottoponeva Anna e il loro amore.

Marco e Roberta invece, dopo tante incomprensioni, mai veramente denunciate e elaborate, non avevano trovato altro rimedio che tradirsi: lui con il suo lavoro, lei con un altro uomo.

Marco che aveva iniziato a passare sempre più tempo fuori casa perché il lavoro chiama e le gratificazioni (economiche e non) sollecitano la voglia di protagonismo. E poi c'è Roberta e il piccolo Enrico che meritano il meglio e lui vuole darglielo. Così, per la famiglia si comincia, paradossalmente, a stare sempre più assenti dalla famiglia, finché i litigi soppiantano la complicità, la rabbia soverchia la tolleranza.

Roberta lo aspetta, lo aspetta finché può aspettarlo, finché ci riesce, finché il senso di solitudine, di abbandono glielo consentono, finché quell'assenza non le si torce contro e diviene il peso del suo fallimento, del suo sentirsi inutile, brutta, disprezzata. È allora che arriva Giulio che, invece, c'è. E la guarda, la cerca, la fa sentire la donna che Roberta vuole essere.

Infine, Luisa e Antonio, che si allontanano iniziando ad allontanare i loro reciproci interessi, pensando che, in fondo, sia giusto che ognuno coltivi le sue passioni, che insegua i suoi desideri; che se a lei piace leggere un bel libro e a lui guardare lo sport in Tv, si può passare anche una serata così, perché, per amore dell'Altro, si può -e forse si deve- rinunciare un po' a se stessi; perché, per amore di sé, si può -e forse si deve- rinunciare un po' al «noi».


Solo che, senza accorgersene, lentamente, queste rinunce diventano la norma: lo straordinario si ordina nell'ordinarietà del quotidiano fino a che di quel «noi» che Luisa e Antonio erano insieme, non rimangono che vaghe tracce nelle imprescindibili movenze della sopravvivenza: fare la spesa, occuparsi del casa, le bollette che scadono, il mutuo, la visita alle famiglie di origine... .

Tre piccole storie di ordinaria crisi di coppia. Tre storie che raccontano che amare non basta, non è sufficiente e che, ad ogni sacrosanta parola d’amore, deve necessariamente seguire un gesto d’amore, un gesto di cura che risponda a quel richiamo con cui in tanti, infiniti modi (più o meno adeguati, più o meno patologici), noi umani lanciamo nel cosmo un grido sempre parimenti colmo di incommensurabile gioia e di incommensurabile dolore: “Ti amoooooooooo!”.

Un grido che, apparentemente, sembra restituire la sola nostra infatuazione per l'Altro: il bisogno di amare, un darsi a prescindere, incondizionato, ma che sottende invece un'altra profonda e spesso inconscia richiesta: “Amamiiiiiiiiii!”.

Se fossimo davvero capaci di amare a prescindere, di amare incondizionatamente, di amare fermandoci all'urlato “Ti amooooooooo!”, l'amore sarebbe l'ultimo dei problemi dell'umanità ma, forse, non sarebbe amore.

Tutte le difficoltà ma, soprattutto, l'irresistibile fascino e il profondo, fisiologico bisogno d'amore, la sua bellezza, nascono, invece, dal fatto che amare non basta, perché, quello che in fondo vogliamo è amare per essere amati o, similmente, essere amanti per poter amare.

Amare non basta perché l'amore, quello vero, quello sano, trova compimento solo nel vicendevole scambio della relazione e qualsiasi deformazione onanistica che non preveda la fusione tra il mio bisogno di amare e il mio bisogno di sentirmi amato, apre la porta al campo del malessere, quando non della patologia.

Se si può amare unidirezionalmente un figlio o un genitore, un fratello, un amico, ma nell'amore di coppia non si può amare senza essere amati o, meglio, purtroppo si può, ma quando succede la domanda da farsi non è: “Perché non mi ami?”, ma: “Perché ti amo se tu non mi ami?”.

Ed è domanda che spalanca, con diversi gradi di difficoltà, la strada del lavoro su di sé, sulle proprie insicurezze, le paure, i traumi, le mancanze, i bisogni profondi, le proprie fragilità.

Non è, insomma, domanda con cui semplicemente interrogare l'Altro, colpevole di non amarmi o, come nella gran parte dei casi, di non amarmi come io vorrei essere amato, ma è domanda che, invece, deve interrogarci per spronarci a pretendere l’amore che vogliamo, foss’anche per capire che non è l’Altro che amiamo che può donarcelo.


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Anna e Patrizio vennero in studio dicendo che la loro vita era diventata un inferno e che altro non c'era che separarsi.

Scoprimmo, invece, nel corso delle nostre riflessioni, che il male oscuro che li aveva colpiti poteva essere medicato; che le scenate folli di cui Patrizio era protagonista (senza sapere, peraltro, da cosa scaturissero), potevano essere curate, proprio da Anna, con opportuni stratagemmi e non contrastate con mutismi, abbandoni, accesi conflitti che altro non facevano che esasperare quelle crisi.

Forse un approccio più ortodosso avrebbe diagnosticato il disagio di Patrizio come Disturbo Ossessivo Compulsivo, un DOC da relazione, con conseguente profilo etichettante e, magari, somministrazione di farmaci.

 Amore in MediadoE, in effetti, Patrizio, mostrava tutti i sintomi di questo malessere: con la sua ricerca esasperata del rapporto perfetto, della perfetta sintonia sessuale, insieme all'incapacità di accettare gli umori negativi di Anna, le sue giornate no in cui aveva bisogno di essere rassicurata, anziché rassicurare.

Ma l'ansia di Patrizio non gli permetteva di stare insieme a una persona con le sue normali fragilità, lui sembrava aver bisogno di un'entità più o meno divina e, quando non la trovava, iniziavano i ripensamenti, l'ossessivo “t'amo non t'amo” che aveva portato a sfogliare ogni margherita del pur nutrito e paziente campo di Anna. Negli ultimi tempi poi, “le rogne”, come le chiamava lui, erano diventate praticamente quotidiane e con loro gli “esami” cui Patrizio sottoponeva Anna e il loro amore.

Marco e Roberta invece, dopo tante incomprensioni, mai veramente denunciate e elaborate, non avevano trovato altro rimedio che tradirsi: lui con il suo lavoro, lei con un altro uomo.

Marco che aveva iniziato a passare sempre più tempo fuori casa perché il lavoro chiama e le gratificazioni (economiche e non) sollecitano la voglia di protagonismo. E poi c'è Roberta e il piccolo Enrico che meritano il meglio e lui vuole darglielo. Così, per la famiglia si comincia, paradossalmente, a stare sempre più assenti dalla famiglia, finché i litigi soppiantano la complicità, la rabbia soverchia la tolleranza.

Roberta lo aspetta, lo aspetta finché può aspettarlo, finché ci riesce, finché il senso di solitudine, di abbandono glielo consentono, finché quell'assenza non le si torce contro e diviene il peso del suo fallimento, del suo sentirsi inutile, brutta, disprezzata. È allora che arriva Giulio che, invece, c'è. E la guarda, la cerca, la fa sentire la donna che Roberta vuole essere.

Infine, Luisa e Antonio, che si allontanano iniziando ad allontanare i loro reciproci interessi, pensando che, in fondo, sia giusto che ognuno coltivi le sue passioni, che insegua i suoi desideri; che se a lei piace leggere un bel libro e a lui guardare lo sport in Tv, si può passare anche una serata così, perché, per amore dell'Altro, si può -e forse si deve- rinunciare un po' a se stessi; perché, per amore di sé, si può -e forse si deve- rinunciare un po' al «noi».


Solo che, senza accorgersene, lentamente, queste rinunce diventano la norma: lo straordinario si ordina nell'ordinarietà del quotidiano fino a che di quel «noi» che Luisa e Antonio erano insieme, non rimangono che vaghe tracce nelle imprescindibili movenze della sopravvivenza: fare la spesa, occuparsi del casa, le bollette che scadono, il mutuo, la visita alle famiglie di origine... .

Tre piccole storie di ordinaria crisi di coppia. Tre storie che raccontano che amare non basta, non è sufficiente e che, ad ogni sacrosanta parola d’amore, deve necessariamente seguire un gesto d’amore, un gesto di cura che risponda a quel richiamo con cui in tanti, infiniti modi (più o meno adeguati, più o meno patologici), noi umani lanciamo nel cosmo un grido sempre parimenti colmo di incommensurabile gioia e di incommensurabile dolore: “Ti amoooooooooo!”.

Un grido che, apparentemente, sembra restituire la sola nostra infatuazione per l'Altro: il bisogno di amare, un darsi a prescindere, incondizionato, ma che sottende invece un'altra profonda e spesso inconscia richiesta: “Amamiiiiiiiiii!”.

Se fossimo davvero capaci di amare a prescindere, di amare incondizionatamente, di amare fermandoci all'urlato “Ti amooooooooo!”, l'amore sarebbe l'ultimo dei problemi dell'umanità ma, forse, non sarebbe amore.

Tutte le difficoltà ma, soprattutto, l'irresistibile fascino e il profondo, fisiologico bisogno d'amore, la sua bellezza, nascono, invece, dal fatto che amare non basta, perché, quello che in fondo vogliamo è amare per essere amati o, similmente, essere amanti per poter amare.

Amare non basta perché l'amore, quello vero, quello sano, trova compimento solo nel vicendevole scambio della relazione e qualsiasi deformazione onanistica che non preveda la fusione tra il mio bisogno di amare e il mio bisogno di sentirmi amato, apre la porta al campo del malessere, quando non della patologia.

Se si può amare unidirezionalmente un figlio o un genitore, un fratello, un amico, ma nell'amore di coppia non si può amare senza essere amati o, meglio, purtroppo si può, ma quando succede la domanda da farsi non è: “Perché non mi ami?”, ma: “Perché ti amo se tu non mi ami?”.

Ed è domanda che spalanca, con diversi gradi di difficoltà, la strada del lavoro su di sé, sulle proprie insicurezze, le paure, i traumi, le mancanze, i bisogni profondi, le proprie fragilità.

Non è, insomma, domanda con cui semplicemente interrogare l'Altro, colpevole di non amarmi o, come nella gran parte dei casi, di non amarmi come io vorrei essere amato, ma è domanda che, invece, deve interrogarci per spronarci a pretendere l’amore che vogliamo, foss’anche per capire che non è l’Altro che amiamo che può donarcelo.


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L'Amore cura... può curare

L'amore cura.
Così mi piace sintetizzare il senso di questo viaggio, iniziato ormai tanti post or sono, attorno all'amore di coppia in cui, articolo dopo articolo, stiamo cercando di analizzare la possibilità di comprendere cos'è questa bellissima e misteriosa cosa che chiamiamo "amore", per imparare a curarlo quando entra nella spirale della crisi, oppure ne annusa la possibile presenza, o solo pretende di essere preventivamente accudito affinché la crisi non si prospetti all'orizzonte.

Lo diceva già il nostro divino Dante, “l'amor che move il sole e l’altre stelle” , e se move il sole e le stelle, figuriamoci cosa può combinare a degli esserini mortali come siamo noi...

L'amore ci coinvolge, ci travolge e, come bene sappiamo, può diventare la nostra benedizione o la nostra maledizione -e non solo per quel che riguarda la stretta relazione di coppia.

Quando l'amore non c'è o è in crisi, anche tutta la nostra vita ne risente e, esposta alle intemperie di emozioni dolorose, palesa tutte quelle fragilità che, invece, il pulsare del cuore innamorato protegge con la forza del «noi» -quella forza che l'«io» non possiede e proprio per questo cerca nel «noi» di far fronte alle sue mancanze.

Insomma, quando amiamo e siamo amati la vita, anche nelle situazioni più difficili, se non sorride, agita almeno la bandiera della speranza e del conforto, dell'accoglienza.

 Amore in MediadoCon questa importante ovvietà (un po' da bacio perugina) voglio dunque nuovamente sottolineare il tema principe di questo blog: la possibilità che l'Altro che mi ama si faccia artefice della mia cura, diventando la panacea del mio malessere e, proprio in virtù del suo amore, mi presti le sue premure -anche laddove questo amore si sia trasformato passando dalla forma coniugale alla forma amicale o cooperativa (come -ad esempio- nei più riusciti percorsi di mediazione famigliare), ma soprattutto, laddove l'amore è ancora vivo e solo soffre nel sentirsi ostacolato da una delle tante difficoltà che la vita ci riserva.

In tutti questi anni di attività clinica, ho sperimentato, su centinaia di casi e con successo, questo processo in cui l'amore diviene vero e proprio medicamento capace di risolvere complesse problematiche, anche individuali, che magari persistevano da anni.

Uomini e donne che giungevano in studio rivendicando una crisi che, alla prova dell'analisi, si dimostrava solamente il frutto di una difficoltà che non era stata né capita né accolta: a volte perché non presente alla consapevolezza del soggetto in disagio, a volte perché malamente comunicata con la pretesa che l'Altro dovesse comprendere a prescindere, a volte perché rafforzata da reciproci inadeguati atteggiamenti. Ma, comunque, in ogni caso, agente.

Poi, come in ogni crisi, il malessere non controllato si insidia come un virus cui ognuno cerca (anche in buona fede) di apportare la propria ricetta e, attraverso ripetute tentate soluzioni, non sempre pensate come tali, finisce, invece, per peggiorare la situazione, ingarbugliando tanto il gomitolo che si fatica a trovare il bandolo e si imputa alla fine dell'amore un problema che, invece, originava altrove.

Certo, a volte si arriva troppo tardi, e niente e nessuno può ritrovare il capo di un filo così malamente aggrovigliato in cui l'amore è rimasto imprigionato fino a soffocare. Ma, se la coppia, con buona lungimiranza, riesce a farsi aiutare in tempo, allora tanto si può (e forse si deve) davvero fare.



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L'amore cura.
Così mi piace sintetizzare il senso di questo viaggio, iniziato ormai tanti post or sono, attorno all'amore di coppia in cui, articolo dopo articolo, stiamo cercando di analizzare la possibilità di comprendere cos'è questa bellissima e misteriosa cosa che chiamiamo "amore", per imparare a curarlo quando entra nella spirale della crisi, oppure ne annusa la possibile presenza, o solo pretende di essere preventivamente accudito affinché la crisi non si prospetti all'orizzonte.

Lo diceva già il nostro divino Dante, “l'amor che move il sole e l’altre stelle” , e se move il sole e le stelle, figuriamoci cosa può combinare a degli esserini mortali come siamo noi...

L'amore ci coinvolge, ci travolge e, come bene sappiamo, può diventare la nostra benedizione o la nostra maledizione -e non solo per quel che riguarda la stretta relazione di coppia.

Quando l'amore non c'è o è in crisi, anche tutta la nostra vita ne risente e, esposta alle intemperie di emozioni dolorose, palesa tutte quelle fragilità che, invece, il pulsare del cuore innamorato protegge con la forza del «noi» -quella forza che l'«io» non possiede e proprio per questo cerca nel «noi» di far fronte alle sue mancanze.

Insomma, quando amiamo e siamo amati la vita, anche nelle situazioni più difficili, se non sorride, agita almeno la bandiera della speranza e del conforto, dell'accoglienza.

 Amore in MediadoCon questa importante ovvietà (un po' da bacio perugina) voglio dunque nuovamente sottolineare il tema principe di questo blog: la possibilità che l'Altro che mi ama si faccia artefice della mia cura, diventando la panacea del mio malessere e, proprio in virtù del suo amore, mi presti le sue premure -anche laddove questo amore si sia trasformato passando dalla forma coniugale alla forma amicale o cooperativa (come -ad esempio- nei più riusciti percorsi di mediazione famigliare), ma soprattutto, laddove l'amore è ancora vivo e solo soffre nel sentirsi ostacolato da una delle tante difficoltà che la vita ci riserva.

In tutti questi anni di attività clinica, ho sperimentato, su centinaia di casi e con successo, questo processo in cui l'amore diviene vero e proprio medicamento capace di risolvere complesse problematiche, anche individuali, che magari persistevano da anni.

Uomini e donne che giungevano in studio rivendicando una crisi che, alla prova dell'analisi, si dimostrava solamente il frutto di una difficoltà che non era stata né capita né accolta: a volte perché non presente alla consapevolezza del soggetto in disagio, a volte perché malamente comunicata con la pretesa che l'Altro dovesse comprendere a prescindere, a volte perché rafforzata da reciproci inadeguati atteggiamenti. Ma, comunque, in ogni caso, agente.

Poi, come in ogni crisi, il malessere non controllato si insidia come un virus cui ognuno cerca (anche in buona fede) di apportare la propria ricetta e, attraverso ripetute tentate soluzioni, non sempre pensate come tali, finisce, invece, per peggiorare la situazione, ingarbugliando tanto il gomitolo che si fatica a trovare il bandolo e si imputa alla fine dell'amore un problema che, invece, originava altrove.

Certo, a volte si arriva troppo tardi, e niente e nessuno può ritrovare il capo di un filo così malamente aggrovigliato in cui l'amore è rimasto imprigionato fino a soffocare. Ma, se la coppia, con buona lungimiranza, riesce a farsi aiutare in tempo, allora tanto si può (e forse si deve) davvero fare.



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Amore in Mediato: il libro

 "Amore in mediato"- store FeltrinelliIntervista a Massimo Silvano Galli in occasione dell'uscita del suo nuovo libro acquistalo nello Store Feltrinelli  o in formato E-book su Amazon.


* * *

"Ci innamoriamo di un punto lungo la lontana linea dell'orizzonte, qualcosa che luccica ed è come-me ma non-è-me e, per questo, mi attrae: perché mi somiglia, ma mai fino al punto da essere coincidente. Poi la lontananza si affievolisce, il punto luminoso si increspa di ombre: ci si avvicina, ci si conosce, si diventa intimi, a volte tanto intimi da non essere più capaci di giocare a quel meraviglioso gioco che un tempo era il ri-conoscersi, il conoscersi ogni giorno nuovamente. Si diventa scontati e si sconta il prezzo, altissimo, di non aver imparato a giocare al gioco dell'amore...".

Un viaggio nei territori dell'amore, attraverso le sue crisi e i suoi rimedi. Un volo panoramico tra esercizi e riflessioni per non separarsi prematuramente imparando a giocare al Gioco dell'Amore...

E' il nuovo libro di Massimo Silvano Galli, mediatore famigliare, educatore e love trainer che ha dedicato buona parte dell'ultimo decennio agli studi e ai rimedi sulle "cose dell'Amore", ideando numerose tecniche, strategie, strumenti, dispositivi operando con coppie e famiglie in situazione di crisi, per una casistica che ormai supera le migliaia. 

Intervistatore: "Da dove nasce questo nuovo libro?"

M.S.Galli: "Con 'Amore in Mediato' ho voluto dare continuità alle riflessioni e alle esperienze in parte raccolte in un libro di qualche anno fa: "L'Amore alla Fine dell'Amore" (Firera & Liuzzo Publisching, 2012), dove affrontavo il tema delle crisi d'amore che portano alla separazione e al divorzio e alla possibilità che queste siano gestite attraverso un percorso di mediazione familiare che non neghi l'utopia che un nuovo amore, un amore diverso, possa sorgere dalle ceneri del precedente, non per qualche beghina ideologia antidivorzista, ma affinché, scegliendo la strada del farsi del bene anziché quella del farsi del male, ogni soggetto coinvolto nel percorso di separazione possa aspirare al pieno e copioso accesso ad un benessere che veda presente e futuro come risorsa generativa e non come pretesto distruttivo, per sé e, soprattutto, per gli eventuali figli coinvolti.".

Int.: "Ma in questo nuovo lavoro non si parla di come affrontare la separazione, ma di come evitarla, o sbaglio?".

M.S.G.: "E' proprio così. L'esperienza clinica mi vede il più delle volte affrontare situazioni di  coppie confuse, in cui il pensiero delle separazione, per quanto presente, è uno tra i tanti, ma la cui volontà di fondo è, anzitutto, cercare di capire se il loro amore scheggiato, a volte davvero mal ridotto, si può riparare. Questo libro riassume queste esperienze e fornisce alcune importanti indicazioni non solo per riparare la crisi, ma anche per non giungervi.".

Int.: "Ma si può riparare un amore scheggiato o, come dice lei: mal ridotto?".

M.S.G.: "Credo sia proprio questo il punto nodale: L'esperienza mi dice che non solo si può, ma -anzitutto- si deve. E non perché sia contrario a divorzi o separazioni. Da qualche parte nel libro scrivo che, per quel che mi riguarda, ci si può separare al ritmo di un divorzio a settimana. Il problema non è, dunque, la valutazione morale delle separazioni, ma la loro sempre più frequente inopportunità. Le coppie che giungono nel mio studio vivono, magari da anni, una crisi che non ha a che fare con l'amore, ma con la loro perduta capacità di amare. Durante il lavoro in studio si osserva, dunque, spesso un errore di valutazione in cui le coppie credono finito un amore che, invece, va solo riparato.".

Int.: "Cosa significa: che non si smette di amare, ma si smette si essere capaci di amarsi?".

M.S.G.:  "Non per tutti, ovvio. L'amore è materia deperibile e anch'esso finisce, se non conservato con cura. Ma, spesso, sì: questa incapacità di conservarlo e di prendersene cura, è all'origine della sua crisi, soprattutto in questa nostra strana epoca dove l'amore è da più parti minacciato.".

Intervistatore; "Cosa intende con minacciato?".

M.S.G.:  "In questi anni di intervento sul campo ho potuto appurare una veloce e inesorabile trasformazione delle relazioni di coppia e delle crisi in cui incappano, un cambiamento culturale che ha mutato la classica affermazione: "Non ti amo più", che anticipava lo scioglimento delle relazione, nella nuova e confusa posizione del: "Non so più come amare". Confusione che sottende una condizione di crisi che sta a monte della crisi di coppia specifica, che riguarda convinzioni e modelli culturali cui la coppia partecipa minando la sua stabilità e che, se presi in anticipo, se osservati e curati preventivamente, spesso si può evitare che la crisi divenga definitiva.".

Int.: "Il suo libro ci può dunque insegnare come non smettere di amarsi?". .

M.S.G.: "Direi di sì; sicuramente ci può aiutare ad evitare tutti quegli errori che aumentano esponenzialmente la possibilità di fare emergere la crisi in questo contesto epocale che, a mio avviso, può davvero dirsi “dell'amore alla fine dell'amore”, denunciando cioè come l'amore, almeno per come lo conosciamo e pratichiamo, è arrivato al suo capolinea e necessita quindi di una riconfigurazione che ci aiuti meglio a comprendere cosa è diventato e come poterne adeguatamente fruire, senza rischiare che imploda o esploda.".

Int.: "E in tutto questo il gioco sembra essere una variabile determinante, come ci indica nel sottotitolo: giocare all'amore fa bene all'amore?". 

M.S.G.:  "Assolutamente sì. Per quanto ne sappiamo, siamo gli unici animali che hanno inventato un cosi sofisticato gioco per giungere a ciò che la natura vuole: la sopravvivenza delle specie -tanto che il gioco prevede, addirittura, di essere giocato senza accoppiarsi o senza prolificare. Questo gioco magnifico, attraversato da infinite variabili, ci invita, oggi più che mai, ad evadere dalla spontanea naturalezza con cui finora l'abbiamo vissuto, per accedere a quell'artificialità tipica del gioco in cui è fondamentale conoscerne le regole, le opzioni e gli imprevisti. Questo libro è il risultato di questi anni di lavoro in cui, alle riflessioni maturate, si affiancano indicazioni di merito e veri e propri "home work" per imparare a giocare al gioco dell'amore.".


* * *

Il nuovo libro di Massimo Silvano Galli è disponibile in tutte le Librerie Feltrinelli, oppure lo puoi acquistare su internet: nello Store Feltrinelli (clicca quio, per chi desiderasse il libro in formato E-book, lo trova su Amazon (clicca qui).


 "Amore in mediato"- store FeltrinelliIntervista a Massimo Silvano Galli in occasione dell'uscita del suo nuovo libro acquistalo nello Store Feltrinelli  o in formato E-book su Amazon.


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"Ci innamoriamo di un punto lungo la lontana linea dell'orizzonte, qualcosa che luccica ed è come-me ma non-è-me e, per questo, mi attrae: perché mi somiglia, ma mai fino al punto da essere coincidente. Poi la lontananza si affievolisce, il punto luminoso si increspa di ombre: ci si avvicina, ci si conosce, si diventa intimi, a volte tanto intimi da non essere più capaci di giocare a quel meraviglioso gioco che un tempo era il ri-conoscersi, il conoscersi ogni giorno nuovamente. Si diventa scontati e si sconta il prezzo, altissimo, di non aver imparato a giocare al gioco dell'amore...".

Un viaggio nei territori dell'amore, attraverso le sue crisi e i suoi rimedi. Un volo panoramico tra esercizi e riflessioni per non separarsi prematuramente imparando a giocare al Gioco dell'Amore...

E' il nuovo libro di Massimo Silvano Galli, mediatore famigliare, educatore e love trainer che ha dedicato buona parte dell'ultimo decennio agli studi e ai rimedi sulle "cose dell'Amore", ideando numerose tecniche, strategie, strumenti, dispositivi operando con coppie e famiglie in situazione di crisi, per una casistica che ormai supera le migliaia. 

Intervistatore: "Da dove nasce questo nuovo libro?"

M.S.Galli: "Con 'Amore in Mediato' ho voluto dare continuità alle riflessioni e alle esperienze in parte raccolte in un libro di qualche anno fa: "L'Amore alla Fine dell'Amore" (Firera & Liuzzo Publisching, 2012), dove affrontavo il tema delle crisi d'amore che portano alla separazione e al divorzio e alla possibilità che queste siano gestite attraverso un percorso di mediazione familiare che non neghi l'utopia che un nuovo amore, un amore diverso, possa sorgere dalle ceneri del precedente, non per qualche beghina ideologia antidivorzista, ma affinché, scegliendo la strada del farsi del bene anziché quella del farsi del male, ogni soggetto coinvolto nel percorso di separazione possa aspirare al pieno e copioso accesso ad un benessere che veda presente e futuro come risorsa generativa e non come pretesto distruttivo, per sé e, soprattutto, per gli eventuali figli coinvolti.".

Int.: "Ma in questo nuovo lavoro non si parla di come affrontare la separazione, ma di come evitarla, o sbaglio?".

M.S.G.: "E' proprio così. L'esperienza clinica mi vede il più delle volte affrontare situazioni di  coppie confuse, in cui il pensiero delle separazione, per quanto presente, è uno tra i tanti, ma la cui volontà di fondo è, anzitutto, cercare di capire se il loro amore scheggiato, a volte davvero mal ridotto, si può riparare. Questo libro riassume queste esperienze e fornisce alcune importanti indicazioni non solo per riparare la crisi, ma anche per non giungervi.".

Int.: "Ma si può riparare un amore scheggiato o, come dice lei: mal ridotto?".

M.S.G.: "Credo sia proprio questo il punto nodale: L'esperienza mi dice che non solo si può, ma -anzitutto- si deve. E non perché sia contrario a divorzi o separazioni. Da qualche parte nel libro scrivo che, per quel che mi riguarda, ci si può separare al ritmo di un divorzio a settimana. Il problema non è, dunque, la valutazione morale delle separazioni, ma la loro sempre più frequente inopportunità. Le coppie che giungono nel mio studio vivono, magari da anni, una crisi che non ha a che fare con l'amore, ma con la loro perduta capacità di amare. Durante il lavoro in studio si osserva, dunque, spesso un errore di valutazione in cui le coppie credono finito un amore che, invece, va solo riparato.".

Int.: "Cosa significa: che non si smette di amare, ma si smette si essere capaci di amarsi?".

M.S.G.:  "Non per tutti, ovvio. L'amore è materia deperibile e anch'esso finisce, se non conservato con cura. Ma, spesso, sì: questa incapacità di conservarlo e di prendersene cura, è all'origine della sua crisi, soprattutto in questa nostra strana epoca dove l'amore è da più parti minacciato.".

Intervistatore; "Cosa intende con minacciato?".

M.S.G.:  "In questi anni di intervento sul campo ho potuto appurare una veloce e inesorabile trasformazione delle relazioni di coppia e delle crisi in cui incappano, un cambiamento culturale che ha mutato la classica affermazione: "Non ti amo più", che anticipava lo scioglimento delle relazione, nella nuova e confusa posizione del: "Non so più come amare". Confusione che sottende una condizione di crisi che sta a monte della crisi di coppia specifica, che riguarda convinzioni e modelli culturali cui la coppia partecipa minando la sua stabilità e che, se presi in anticipo, se osservati e curati preventivamente, spesso si può evitare che la crisi divenga definitiva.".

Int.: "Il suo libro ci può dunque insegnare come non smettere di amarsi?". .

M.S.G.: "Direi di sì; sicuramente ci può aiutare ad evitare tutti quegli errori che aumentano esponenzialmente la possibilità di fare emergere la crisi in questo contesto epocale che, a mio avviso, può davvero dirsi “dell'amore alla fine dell'amore”, denunciando cioè come l'amore, almeno per come lo conosciamo e pratichiamo, è arrivato al suo capolinea e necessita quindi di una riconfigurazione che ci aiuti meglio a comprendere cosa è diventato e come poterne adeguatamente fruire, senza rischiare che imploda o esploda.".

Int.: "E in tutto questo il gioco sembra essere una variabile determinante, come ci indica nel sottotitolo: giocare all'amore fa bene all'amore?". 

M.S.G.:  "Assolutamente sì. Per quanto ne sappiamo, siamo gli unici animali che hanno inventato un cosi sofisticato gioco per giungere a ciò che la natura vuole: la sopravvivenza delle specie -tanto che il gioco prevede, addirittura, di essere giocato senza accoppiarsi o senza prolificare. Questo gioco magnifico, attraversato da infinite variabili, ci invita, oggi più che mai, ad evadere dalla spontanea naturalezza con cui finora l'abbiamo vissuto, per accedere a quell'artificialità tipica del gioco in cui è fondamentale conoscerne le regole, le opzioni e gli imprevisti. Questo libro è il risultato di questi anni di lavoro in cui, alle riflessioni maturate, si affiancano indicazioni di merito e veri e propri "home work" per imparare a giocare al gioco dell'amore.".


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Il nuovo libro di Massimo Silvano Galli è disponibile in tutte le Librerie Feltrinelli, oppure lo puoi acquistare su internet: nello Store Feltrinelli (clicca quio, per chi desiderasse il libro in formato E-book, lo trova su Amazon (clicca qui).


 
amoreCiao Copyright © 2012 by Massimo Silvano Galli