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Divorzio breve, matrimonio pure

In un bell'articolo del 2009 ("Perché si sceglie di stare insieme una vita senza una vera ragione per farlo" -Repubblica, 1 settembre 2009), il filosofo Umberto Galimberti esortava, tra le altre cose, a riflettere sulla fragilità delle relazioni di coppia contemporanee, segnata dalla tendenza, sempre più diffusa, alla separazione, quasi che, per boutade paradossale, l'accesso al divorzio si configurasse quale passaggio fondamentale per giungere al (vero) traguardo della separazione.

Galimberti, la cui opera non può certo essere accusata di clericalità, invitava a riflettere su come, in un'epoca in cui tutti sembrerebbero protesi a chiedere un qualche tipo di facilitazione al divorzio, forse ci si dovrebbe interrogare su come rendere difficile il matrimonio.

Qualche anno dopo quell'articolo, ecco dunque la legge sul divorzio breve.

Il legislatore ha voluto così prestare ascolto ai tanti sofferenti che, finiti nel gorgo della separazione, erano costretti ad aspettate almeno tre anni (salvo ricorsi in giudizio) prima di veder sciogliersi, sulle carte della burocrazia, quell'amore che, nella mente e nel corpo, si era dissolto da anni.

Opera meritevole, per carità, ma forse, come troppo spesso accade, evirata di quella profondità che Galimberti aveva provato a restituire e che, chi si occupa dell'amore con le sue crisi e i suoi rimedi, incontra tutti i giorni nel suo lavoro clinico.

Più volte in questo blog abbiamo sollecitato a riflettere, noi pure lontani da qualsivoglia immischiamento religioso, su come la gran parte delle persone che giungono in mediazione, presentino, fondamentalmente, il dilemma, tutto individuale, del non saper più come amare che spinge alla rieducazione, piuttosto che la certezza, più strettamente relazionale, del "Non ti amo più" che spinge alla separazione.

 Amore in MediadoNon è differenza da poco. E non tanto perché non ci si possa separare, per quel che mi riguarda, anche al ritmo di un divorzio ogni due settimane; ma perché, come bene ci insegnano le culture tradizionali, ogni separazione, pur consapevole che sia, comporta costi sociali e individuali: sul piano relazionale, psicologico e, non ultimo, economico. Costi che non possono essere ignorati o ridotti a effetto collaterale, ma necessitano di essere disciplinati, anzitutto, sul piano di un corretto e costruttivo accesso alla conflittualità, capace di non trasformare ogni separazione in quella guerra senza confini cui, purtroppo, le cronache ci hanno abituato.

Ma, al di là di quelle separazioni che denunciano un amore effettivamente finito, ciò che ci preoccupa di questa insostenibile leggerezza del divorzio è, sulla scia di Galimberti, l'insostenibile leggerezza del matrimonio cui implicitamente rimanda; forti dell'esperienza clinica che ci vede ogni giorno confrontarci con coppie che credono di essere giunte al dramma della frutta quando, la vera tragedia, è che non hanno imparato a stare al tavolo che l'amore contemporaneo apparecchia o, peggio, non avrebbero nemmeno dovuto sedersi insieme (e, soprattutto, farci sedere figli e figlie).

Così, mentre un po' in ogni dove del vivere contemporaneo, l'escalation verso la civiltà sembrerebbe suggerire la strada della semplificazione, della facilitazione; per quel che concerne quell'amore che volge al costituzione di una famiglia, a maggiore ragione ora con il divorzio breve, crediamo sia necessario costruire una nuova cultura dell'amore coniugale, attraverso laici dispositivi di approccio alla vita a due e, più in generale, alla vita famigliare. Il che significa, non solo lavorare sulle emergenze delle coppie in crisi, ma anche lavorare affinché queste coppie giungano in mediazione prima che la crisi sia inevitabilmente volta alla sola possibilità della separazione e, sopra a tutto, lavorare affinché le nuove coppie che intendono coniugarsi arrivino al matrimonio con quella consapevolezza che augurava Pier Paolo Pasolini nel finale del suo "Comizi D'amore": «Al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore».


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In un bell'articolo del 2009 ("Perché si sceglie di stare insieme una vita senza una vera ragione per farlo" -Repubblica, 1 settembre 2009), il filosofo Umberto Galimberti esortava, tra le altre cose, a riflettere sulla fragilità delle relazioni di coppia contemporanee, segnata dalla tendenza, sempre più diffusa, alla separazione, quasi che, per boutade paradossale, l'accesso al divorzio si configurasse quale passaggio fondamentale per giungere al (vero) traguardo della separazione.

Galimberti, la cui opera non può certo essere accusata di clericalità, invitava a riflettere su come, in un'epoca in cui tutti sembrerebbero protesi a chiedere un qualche tipo di facilitazione al divorzio, forse ci si dovrebbe interrogare su come rendere difficile il matrimonio.

Qualche anno dopo quell'articolo, ecco dunque la legge sul divorzio breve.

Il legislatore ha voluto così prestare ascolto ai tanti sofferenti che, finiti nel gorgo della separazione, erano costretti ad aspettate almeno tre anni (salvo ricorsi in giudizio) prima di veder sciogliersi, sulle carte della burocrazia, quell'amore che, nella mente e nel corpo, si era dissolto da anni.

Opera meritevole, per carità, ma forse, come troppo spesso accade, evirata di quella profondità che Galimberti aveva provato a restituire e che, chi si occupa dell'amore con le sue crisi e i suoi rimedi, incontra tutti i giorni nel suo lavoro clinico.

Più volte in questo blog abbiamo sollecitato a riflettere, noi pure lontani da qualsivoglia immischiamento religioso, su come la gran parte delle persone che giungono in mediazione, presentino, fondamentalmente, il dilemma, tutto individuale, del non saper più come amare che spinge alla rieducazione, piuttosto che la certezza, più strettamente relazionale, del "Non ti amo più" che spinge alla separazione.

 Amore in MediadoNon è differenza da poco. E non tanto perché non ci si possa separare, per quel che mi riguarda, anche al ritmo di un divorzio ogni due settimane; ma perché, come bene ci insegnano le culture tradizionali, ogni separazione, pur consapevole che sia, comporta costi sociali e individuali: sul piano relazionale, psicologico e, non ultimo, economico. Costi che non possono essere ignorati o ridotti a effetto collaterale, ma necessitano di essere disciplinati, anzitutto, sul piano di un corretto e costruttivo accesso alla conflittualità, capace di non trasformare ogni separazione in quella guerra senza confini cui, purtroppo, le cronache ci hanno abituato.

Ma, al di là di quelle separazioni che denunciano un amore effettivamente finito, ciò che ci preoccupa di questa insostenibile leggerezza del divorzio è, sulla scia di Galimberti, l'insostenibile leggerezza del matrimonio cui implicitamente rimanda; forti dell'esperienza clinica che ci vede ogni giorno confrontarci con coppie che credono di essere giunte al dramma della frutta quando, la vera tragedia, è che non hanno imparato a stare al tavolo che l'amore contemporaneo apparecchia o, peggio, non avrebbero nemmeno dovuto sedersi insieme (e, soprattutto, farci sedere figli e figlie).

Così, mentre un po' in ogni dove del vivere contemporaneo, l'escalation verso la civiltà sembrerebbe suggerire la strada della semplificazione, della facilitazione; per quel che concerne quell'amore che volge al costituzione di una famiglia, a maggiore ragione ora con il divorzio breve, crediamo sia necessario costruire una nuova cultura dell'amore coniugale, attraverso laici dispositivi di approccio alla vita a due e, più in generale, alla vita famigliare. Il che significa, non solo lavorare sulle emergenze delle coppie in crisi, ma anche lavorare affinché queste coppie giungano in mediazione prima che la crisi sia inevitabilmente volta alla sola possibilità della separazione e, sopra a tutto, lavorare affinché le nuove coppie che intendono coniugarsi arrivino al matrimonio con quella consapevolezza che augurava Pier Paolo Pasolini nel finale del suo "Comizi D'amore": «Al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore».


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Mediazione famigliare: "Confusi alla meta"

La crisi che la coppia porta nel setting della mediazione famigliare è sempre carica di molteplici istanze, non sempre esplicite e non esclusivamente circoscrivibili entro l'obiettivo della separazione o del divorzio né, men che meno, consapevolmente mosse dalla necessità di superare costruttivamente il conflitto o di aprire una nuova comunicazione capace di riconfigurare una relazione che ha perduto la gran parte delle risorse e delle energie propositive, comprese, quindi, quelle energie in grado di individuare, davanti ad un ostacolo, alternative e benefiche vie per superarlo (M.S: Galli, "L'amore alla fine dell'amore").

Infatti, come cercheremo di spiegare in questo nuovo articolo scritto con Stella Morana, quando si cercano di individuare le emozioni che le persone vivono nelle relazioni umane, diviene assai difficile trovare delle categorie definite, tutto è molto sfumato e indefinito, a maggior ragione per quella complessa relazione che è l'amore di coppia.

Le emozioni che provano due coniugi in procinto di separarsi si fondono e si miscelano tra loro. Non possiamo più chiamarle con un solo nome poiché, incontrandosi e scontrandosi, si trasformano in altro. Il tradimento, ad esempio, non porta con sé solo rabbia, ma anche delusione, senso di smarrimento e di fallimento, apprensione per il futuro, paura, orgoglio ferito, amore e nostalgia di una complicità ormai perduta. Così come, a volte, si può amare profondamente una persona e, allo stesso tempo, sentirci irritati dalle sue azioni o dalle sue parole, tanto da allontanarla da noi.

Questi sentimenti, queste emozioni complesse e, a volte, contraddittorie che si intrecciano e si accavallano una sopra e sotto l'altra, si amplificano chiaramente a dismisura quando la crisi entra a piè pari nelle dinamiche di coppia e le travolge.

Ce ne regala un mirabile esempio Laura Dave quando nel suo libro: "Festa di divorzio" (2010, Mondadori), narra le vicende di una coppia, Gwyn e Thomas, che dopo trentacinque anni di matrimonio, decidono di organizzare una festa, per annunciare -appunto- la loro prossima separazione. Nonostante siano coscienti della propria scelta, tanto da volerla celebrare, gli ormai ex coniugi, in alcuni momenti, rimangono storditi per i sentimenti (diversi dall'odio) che provano per l’altro.

“…Thomas ride. Gwyn cerca di non ridere. Si morde l’interno del labbro e cerca di non ridere. È questa la parte dolorosa. L’amore non ti lascia, non tutto a un tratto. Ritorna insinuandosi dentro di te, facendoti pensare che ci può ancora essere un altro modo e tu devi costringerti a ricordare tutte le ragioni per cui probabilmente un altro modo non c’è. […] e avevano dovuto fermarsi perché stavano ridendo troppo. Era come se non riuscissero più a comunicare, ma era stato divertente.”.

Sarà compito del mediatore familiare, come una sorta di Mary Poppins dei sentimenti, aiutare gli ex coniugi a riportare un po’ di ordine nella loro confusione affettiva, al fine di fare scelte consapevoli e giuste per il loro nucleo familiare. Egli li sostiene proprio cercando di diradare la nebbia che lo avvolge, affinché ognuno comprenda (prenda dentro di sé) i sentimenti dell'Altro, non per immiserirli, non per attaccarli, ma per lasciarli risuonare e sentire che un "amore diverso" è possibile, un amore che, di nuovo insieme o separati, sappia ricostruire quelle emozioni positive e costruttive che che regnano quando la vita attraversa i territori del benessere.

La crisi che la coppia porta nel setting della mediazione famigliare è sempre carica di molteplici istanze, non sempre esplicite e non esclusivamente circoscrivibili entro l'obiettivo della separazione o del divorzio né, men che meno, consapevolmente mosse dalla necessità di superare costruttivamente il conflitto o di aprire una nuova comunicazione capace di riconfigurare una relazione che ha perduto la gran parte delle risorse e delle energie propositive, comprese, quindi, quelle energie in grado di individuare, davanti ad un ostacolo, alternative e benefiche vie per superarlo (M.S: Galli, "L'amore alla fine dell'amore").

Infatti, come cercheremo di spiegare in questo nuovo articolo scritto con Stella Morana, quando si cercano di individuare le emozioni che le persone vivono nelle relazioni umane, diviene assai difficile trovare delle categorie definite, tutto è molto sfumato e indefinito, a maggior ragione per quella complessa relazione che è l'amore di coppia.

Le emozioni che provano due coniugi in procinto di separarsi si fondono e si miscelano tra loro. Non possiamo più chiamarle con un solo nome poiché, incontrandosi e scontrandosi, si trasformano in altro. Il tradimento, ad esempio, non porta con sé solo rabbia, ma anche delusione, senso di smarrimento e di fallimento, apprensione per il futuro, paura, orgoglio ferito, amore e nostalgia di una complicità ormai perduta. Così come, a volte, si può amare profondamente una persona e, allo stesso tempo, sentirci irritati dalle sue azioni o dalle sue parole, tanto da allontanarla da noi.

Questi sentimenti, queste emozioni complesse e, a volte, contraddittorie che si intrecciano e si accavallano una sopra e sotto l'altra, si amplificano chiaramente a dismisura quando la crisi entra a piè pari nelle dinamiche di coppia e le travolge.

Ce ne regala un mirabile esempio Laura Dave quando nel suo libro: "Festa di divorzio" (2010, Mondadori), narra le vicende di una coppia, Gwyn e Thomas, che dopo trentacinque anni di matrimonio, decidono di organizzare una festa, per annunciare -appunto- la loro prossima separazione. Nonostante siano coscienti della propria scelta, tanto da volerla celebrare, gli ormai ex coniugi, in alcuni momenti, rimangono storditi per i sentimenti (diversi dall'odio) che provano per l’altro.

“…Thomas ride. Gwyn cerca di non ridere. Si morde l’interno del labbro e cerca di non ridere. È questa la parte dolorosa. L’amore non ti lascia, non tutto a un tratto. Ritorna insinuandosi dentro di te, facendoti pensare che ci può ancora essere un altro modo e tu devi costringerti a ricordare tutte le ragioni per cui probabilmente un altro modo non c’è. […] e avevano dovuto fermarsi perché stavano ridendo troppo. Era come se non riuscissero più a comunicare, ma era stato divertente.”.

Sarà compito del mediatore familiare, come una sorta di Mary Poppins dei sentimenti, aiutare gli ex coniugi a riportare un po’ di ordine nella loro confusione affettiva, al fine di fare scelte consapevoli e giuste per il loro nucleo familiare. Egli li sostiene proprio cercando di diradare la nebbia che lo avvolge, affinché ognuno comprenda (prenda dentro di sé) i sentimenti dell'Altro, non per immiserirli, non per attaccarli, ma per lasciarli risuonare e sentire che un "amore diverso" è possibile, un amore che, di nuovo insieme o separati, sappia ricostruire quelle emozioni positive e costruttive che che regnano quando la vita attraversa i territori del benessere.

Separarsi insieme ai figli

Uno dei quesiti più frequenti che ogni sano genitore si pone (o si dovrebbe porre) quando si approssima l’evento della separazione, è legato alla possibile condizione di malessere che questa scatenerà nel figlio: “La nostra separazione sarà traumatica per lui?”.

Domanda dalle cento pistole, viste le molteplici configurazioni che può assumere tale evento e le diverse possibili modalità di gestirlo e percepirlo strettamente legate alle individualità in gioco. Tuttavia, pur tenendo conto che ogni situazione fa caso a sé, cercheremo in questo nuovo articolo, scritto con Stella Morana, di fornire alcune brevi ma esplicative risposte.

Anzitutto, è necessario partire dal presupposto che, senza margini di dubbio, la separazione sarà un momento difficile per i figli, come lo è anche per i genitori, e che una certa quota di sofferenza sarà inevitabile.

Un figlio, infatti, vorrebbe sempre vedere i propri genitori amarsi e vivere “per sempre felici e contenti”, come in ogni fiaba che si rispetti, mentre la separazione comporta, ovviamente, la rottura di questa aspettativa.

La famiglia, insomma, è un complesso sistema, formato da soggetti che tra di loro sono strettamente interrelati, e non si può pensare di scomporla senza aspettarsi delle conseguenze su ognuno dei suoi protagonisti, i quali dovranno a loro volta riconfigurarsi per riconquistare un’adeguata omeostasi, compito che risulterà più difficile, tanto più il soggetto è debole e privo di strumenti.

Insomma, ça va sans dire: i figli non sono spettatori passivi delle vicende dei propri genitori, essi partecipano alla separazione e, insieme ai genitori, ne sono i protagonisti, pur non avendola scelta!

Il problema è, semmai, che tipo di protagonismo, in qualità di genitori, intendiamo fargli esperire quando ci si approssima alla separazione.

V’è, infatti, un protagonismo passivo, in cui si commette l’errore di non parlarne, di credere che i figli non capiscano, che tanto basta, chessò: litigare in silenzio, non rendere evidente la crisi, comportarsi da bravi genitori, nonostante l’uomo e la donna che vestono quei panni sono distanti tra loro milioni di chilometri e il gaio sorriso del genitore che compare sui loro volti è poco più di una maschera funebre che nasconde il rancore, l’odio di due ex-amanti rabbiosi.

V’è poi, invece, un protagonismo fin troppo attivo, dove la coppia non risparmia ai figli scene di conflitto o addirittura di violenza, ma anche (e non necessariamente insieme) situazioni in cui il bambino è usato come strumento di vendetta, rivendicazione, sfida, contrapposizione, conquista, rivalsa, trasformandolo in un vero e improprio giudice che, spesso, finirà per pronunciare la propria condanna contro se stesso.

Vi è poi, infine, in questa classifica decisamente riduzionista, il solo protagonismo che -crediamo- si debba far vivere ai figli quando i loro genitori stanno per separarsi, ed è quello di farli partecipare all'evento separativo: mettendoli al corrente, col più largo anticipo possibile, di ciò che sta accadendo; aiutandoli a comprendere, attraverso l’uso di un linguaggio comprensibile alla loro età, ma soprattutto attraverso azioni corrispondenti che, dove finisce la coppia di coniugi, non finisce la coppia di genitori (perché l’essere genitori, come l’essere figli, è un unione indissolubile); facendogli sentire che, di ciò che sta accadendo, loro non hanno colpa (come spesso -invece- tendono a pensare i bambini) e, non per ultimo, operando affinché (nonostante la rabbia, la delusione e il dolore) ognuno dei due coniugi diventi il principale protettore e sostenitore dell’altro genitore, salvaguardando così agli occhi dei bimbi l’imprescindibile figura del padre e della madre.

In questo senso, l’esperienza e le tecniche del mediatore famigliare possono davvero fare la differenza, accompagnando i genitori a scegliere le parole, le azioni e le strategie più efficaci per far vivere ai figli questo sano protagonismo, affinché possano attraversare, nel miglior modo possibile, l’inevitabile fatica di un momento che risulterà, alla fine, tanto importante della loro vita.


Uno dei quesiti più frequenti che ogni sano genitore si pone (o si dovrebbe porre) quando si approssima l’evento della separazione, è legato alla possibile condizione di malessere che questa scatenerà nel figlio: “La nostra separazione sarà traumatica per lui?”.

Domanda dalle cento pistole, viste le molteplici configurazioni che può assumere tale evento e le diverse possibili modalità di gestirlo e percepirlo strettamente legate alle individualità in gioco. Tuttavia, pur tenendo conto che ogni situazione fa caso a sé, cercheremo in questo nuovo articolo, scritto con Stella Morana, di fornire alcune brevi ma esplicative risposte.

Anzitutto, è necessario partire dal presupposto che, senza margini di dubbio, la separazione sarà un momento difficile per i figli, come lo è anche per i genitori, e che una certa quota di sofferenza sarà inevitabile.

Un figlio, infatti, vorrebbe sempre vedere i propri genitori amarsi e vivere “per sempre felici e contenti”, come in ogni fiaba che si rispetti, mentre la separazione comporta, ovviamente, la rottura di questa aspettativa.

La famiglia, insomma, è un complesso sistema, formato da soggetti che tra di loro sono strettamente interrelati, e non si può pensare di scomporla senza aspettarsi delle conseguenze su ognuno dei suoi protagonisti, i quali dovranno a loro volta riconfigurarsi per riconquistare un’adeguata omeostasi, compito che risulterà più difficile, tanto più il soggetto è debole e privo di strumenti.

Insomma, ça va sans dire: i figli non sono spettatori passivi delle vicende dei propri genitori, essi partecipano alla separazione e, insieme ai genitori, ne sono i protagonisti, pur non avendola scelta!

Il problema è, semmai, che tipo di protagonismo, in qualità di genitori, intendiamo fargli esperire quando ci si approssima alla separazione.

V’è, infatti, un protagonismo passivo, in cui si commette l’errore di non parlarne, di credere che i figli non capiscano, che tanto basta, chessò: litigare in silenzio, non rendere evidente la crisi, comportarsi da bravi genitori, nonostante l’uomo e la donna che vestono quei panni sono distanti tra loro milioni di chilometri e il gaio sorriso del genitore che compare sui loro volti è poco più di una maschera funebre che nasconde il rancore, l’odio di due ex-amanti rabbiosi.

V’è poi, invece, un protagonismo fin troppo attivo, dove la coppia non risparmia ai figli scene di conflitto o addirittura di violenza, ma anche (e non necessariamente insieme) situazioni in cui il bambino è usato come strumento di vendetta, rivendicazione, sfida, contrapposizione, conquista, rivalsa, trasformandolo in un vero e improprio giudice che, spesso, finirà per pronunciare la propria condanna contro se stesso.

Vi è poi, infine, in questa classifica decisamente riduzionista, il solo protagonismo che -crediamo- si debba far vivere ai figli quando i loro genitori stanno per separarsi, ed è quello di farli partecipare all'evento separativo: mettendoli al corrente, col più largo anticipo possibile, di ciò che sta accadendo; aiutandoli a comprendere, attraverso l’uso di un linguaggio comprensibile alla loro età, ma soprattutto attraverso azioni corrispondenti che, dove finisce la coppia di coniugi, non finisce la coppia di genitori (perché l’essere genitori, come l’essere figli, è un unione indissolubile); facendogli sentire che, di ciò che sta accadendo, loro non hanno colpa (come spesso -invece- tendono a pensare i bambini) e, non per ultimo, operando affinché (nonostante la rabbia, la delusione e il dolore) ognuno dei due coniugi diventi il principale protettore e sostenitore dell’altro genitore, salvaguardando così agli occhi dei bimbi l’imprescindibile figura del padre e della madre.

In questo senso, l’esperienza e le tecniche del mediatore famigliare possono davvero fare la differenza, accompagnando i genitori a scegliere le parole, le azioni e le strategie più efficaci per far vivere ai figli questo sano protagonismo, affinché possano attraversare, nel miglior modo possibile, l’inevitabile fatica di un momento che risulterà, alla fine, tanto importante della loro vita.


La bigenitorialità non esiste

Sul finire dello scorso anno è uscito per Gilardi editore un bel libro di Michela Foti e Camilla Targher: “Comunicare la separazione ai figli - Dall'Affidamento Condiviso alla Bi-genitorialità passando per la Mediazione Familiare” per cui ho avuto  il piacere di scrivere la prefazione che, a guisa di promozione, pubblico qui di seguito.

* * *

"La bigenitorialità non esiste.".

Qualche mese fa, invitato ad un convegno sul tema, così mi venne da esordire, contribuendo alla rianimazione dei tanti astanti, ormai un po' assonnati, in quel pomeriggio di inizio primavera.

Al di là della boutade, che non può mancare in ogni sana dissertazione, per di più dopo la pausa pranzo, la questione è più che seria e merita, nel pur breve spazio di questa prefazione, il suo approfondimento; soprattutto se il preambolo del caso anticipa un’intensa e meticolosa analisi (il libro di Foti e Targher) su un oggetto che, apparentemente (ma solo apparentemente), la bigenitorialità sembrerebbe metterla in discussione: il divorzio -ancor più in quello specifico che pertiene alla relazione coi figli.

L'intervento clinico, oramai più che decennale, con famiglie in situazione di disagio (da crisi coniugale e separazione, compresi), mi obbliga ogni giorno a riflettere (e intervenire) attorno al radicale cambiamento che negli ultimi anni ha trasformato i rapporti interpersonali, stravolgendo, a cascata, ogni configurazione relazionale che fino a ieri supportava (e, certo, spesso, sopportava) una certa stabilità.

Le ragioni di questa trasformazione sono complesse e non può essere questo il luogo per disciplinarle. Ci basti sapere che, se fino al 1989 (anno della Convenzione sui Diritti del Bambino di New York) il concetto di bigenitorialità riferiva, ai non addetti, per lo più la sua declinazione di stampo biologico; a partire da quella data si è trasferito e diffuso nel campo del diritto: del bambino, a proteggere la necessità di un rapporto continuativo con entrambi i genitori; e dei genitori, a tutelare la possibilità di esercitare il ruolo di padre e di madre.

Il passaggio dalla “scontata naturalità” di una condizione (la facoltà di fare, in egual misura, il padre e la madre e l'esserne, in egual misura, figlio), alla necessità di disciplinare e tutelare giuridicamente tale “naturalità”, racconta da sé il cambiamento. Ma, se tale ridefinizione prendeva allora le mosse dal sempre più diffuso ricorso all'istituto del divorzio e all'urgenza di dare -appunto- il giusto peso a quei diritti delle parti in gioco che le separazioni mettevano (e mettono), nei fatti, frequentemente in discussione; oggi, per una di quelle obversioni tipiche del post-moderno, la situazione sembra completamente capovolta.

Dieci anni prima della Convenzione di New York, un film: “Kramer contro Kramer”, riscuoteva un successo mondiale (anche grazie ad alcuni facili sentimentalismi), ed apriva diffusamente il sipario su una mutazione in cui il femminile si affermava sempre più concretamente, determinando un riposizionamento del ruolo maschile.

Erano i segnali, estesamente manifesti, di una ridefinizione radicale dei ruoli che certo partiva da più lontano, ma che, proprio in quegli anni, si concretava in una serie di nuove e palpabili esigenze, con conseguenti assestamenti delle pratiche famigliari: marcata conquista, per le donne, di un’indipendenza economica che restringeva il tempo del “fare la mamma” e conseguente riqualificazione delle pratiche maschili, insieme alla spinta ad un rapporto più autentico con i figli, dismettendo gli aspetti più repressivi che ne avevano caratterizzato lo stereotipo, a favore di una gamma di sentimenti più articolata.

E’ da qui che, a mio avviso, il concetto di bigenitorialità comincia ad assumere quel senso extrabiologico che si formalizza nella Convenzione sui Diritti del Bambino, ma in questa non si arresta, e prosegue, di pari passo con le altre metamorfosi sociali, insidiando la famiglia ben al di là dell’evento separativo.

Infatti, il riconoscimento di una bigenitorialità ormai radicata nei riferimenti culturali delle famiglie e la sua conseguente tutela giuridica, non significano -purtroppo- la reale esistenza di quotidiane pratiche educative che la esemplifichino.

Ciò che in larga misura sembra essere successo, a fronte del venire meno della famiglia tradizionale, è, di fatto, la scomparsa della bigenitorialità o, meglio: mentre questa veniva acquisita come principio teorico generale, perdeva di pari passo consistenza fino a determinare, oggi, quella che i sociologi chiamano “la società senza padri”, bizzarra immagine di bigenitorialità.

Il contesto in cui si esplica il rapporto tra genitori e figli sembra, dunque, essere al centro di un processo che si polarizza su due posizioni contraddittorie, spesso autoescludentisi e, comunque, confusive: da una parte il richiamo alla bigenitorilità; dall'altra, la progressiva riduzione e svalutazione delle “naturali” e millenarie pratiche educative bigenitorialmente distinte (per quanto a volte nefaste), sintesi che sembra aver finito per salvare (almeno per ora) un solo modus operandi: quello della madre.

Per bene che vada, dunque, per le molte e legittime ragioni del nostro attuale vivere sociale, questa bigenitorialità, ha per lo più le sembianze del materno: sia quando il padre di fatto non c’è (per indolenza o incompetenza -e, sovente, entrambe insieme), sia quando veste i panni della madre .

Non è certo un caso se i più frequenti e consistenti problemi dei figli sono oggi generati da quella ossessione iperprotettiva che pare albergare nella gran parte delle famiglie e trova la sua sponda educativa nell’archetipo della mamma accogliente evirata dall’argine del padre normante. Liberandoci dell’autoritarismo, abbiamo buttato, è il caso di dirlo, il bambino insieme all’acqua sporca e, senza un argine, il fiume tende a esondare.

La centralità del ruolo materno, così come accennata, non richiama, per altro, soltanto ad una rilettura di un modello maschile che non ha ancora saputo mettersi veramente in discussione superando gli stereotipi del passato (per crearne di nuovi ed efficaci) e, nel dubbio, preferisce o sparire o sagomarsi a un ruolo non suo; ma anche all’esigenza di una ricalibrazione del modello materno che, per necessità o legittimo riscatto, finisce per impossessarsi d’ogni spazio di intervento.

In questo contesto così articolato, la bigenitorialità si attesta, al di là di qualsivoglia naturalità o diritto, come una conquista culturale che, paradossalmente, fatica ad attuarsi soprattutto nelle famiglie unite, dove cioè la “normale” configurazione post-moderna dei ruoli non obbliga ad una riflessione in questo senso.

Culturalmente abiurato, e per fortuna, il vetusto padre-padrone, il maschile sembra faticare a ricavarsi un ruolo autentico e personale che non sia sagomabile al femminile o non si esautori nel semplice cambiare un pannolino, andare al parco coi figli, cucinare o lavare i piatti; bensì capace di immaginarsi quale artefice di un cambiamento generativo in un mondo estremamente differente da quello che, i maschi stessi, hanno disegnato per millenni.

Svuotato nelle sue dinamiche tradizionali, alla ricerca di nuove e possibili identità, il ruolo genitoriale, quando non è assunto quasi esclusivamente dal femminile per virtuale parricidio o abdicazione , al femminile finisce per riferirsi per linguaggi, comportamenti, visioni. Sia in un caso che nell’altro, potremmo dunque parlare di: “monogenitorialità”.

Ed ecco allora l’obversione.

E’, infatti, proprio laddove la crisi famigliare irrompe che papà e mamma frequentemente trovano (possono trovare, se ben accompagnati) l’occasione per mettere in discussione costruttiva e propositiva la loro genitorialità, conquistando un apogeo che la normale routine della vita familiare rischia di negare. Il che non vuol essere uno sprono al divorzio, né significa che le famiglie separate siano “migliori”; dovrebbe invece farci riflettere rispetto alla mancanza di un’educazione alla genitorialità che oggi pare diventare sempre più indispensabile e che solo nell’inciampo della crisi coniugale, può trovare l’occasione di riscoprirsi.

Da qui l’importanza della mediazione e di questo libro che bene la illustra, proprio addentrandosi nel fondamentale campo della relazione coi figli e del come affrontare, con loro, il discorso della separazione; non solo nel minuto spazio della tragica rivelazione, ma tanto più in quel tempo potenzialmente esiziale che è il prosieguo della vita da separati trasformandolo -appunto- nell'opportunità di costruire o ritrovare una genitorialità perduta o mai rivelata, nell'attesa che tale necessità irrompa anche nelle famiglie unite.

Sul finire dello scorso anno è uscito per Gilardi editore un bel libro di Michela Foti e Camilla Targher: “Comunicare la separazione ai figli - Dall'Affidamento Condiviso alla Bi-genitorialità passando per la Mediazione Familiare” per cui ho avuto  il piacere di scrivere la prefazione che, a guisa di promozione, pubblico qui di seguito.

* * *

"La bigenitorialità non esiste.".

Qualche mese fa, invitato ad un convegno sul tema, così mi venne da esordire, contribuendo alla rianimazione dei tanti astanti, ormai un po' assonnati, in quel pomeriggio di inizio primavera.

Al di là della boutade, che non può mancare in ogni sana dissertazione, per di più dopo la pausa pranzo, la questione è più che seria e merita, nel pur breve spazio di questa prefazione, il suo approfondimento; soprattutto se il preambolo del caso anticipa un’intensa e meticolosa analisi (il libro di Foti e Targher) su un oggetto che, apparentemente (ma solo apparentemente), la bigenitorialità sembrerebbe metterla in discussione: il divorzio -ancor più in quello specifico che pertiene alla relazione coi figli.

L'intervento clinico, oramai più che decennale, con famiglie in situazione di disagio (da crisi coniugale e separazione, compresi), mi obbliga ogni giorno a riflettere (e intervenire) attorno al radicale cambiamento che negli ultimi anni ha trasformato i rapporti interpersonali, stravolgendo, a cascata, ogni configurazione relazionale che fino a ieri supportava (e, certo, spesso, sopportava) una certa stabilità.

Le ragioni di questa trasformazione sono complesse e non può essere questo il luogo per disciplinarle. Ci basti sapere che, se fino al 1989 (anno della Convenzione sui Diritti del Bambino di New York) il concetto di bigenitorialità riferiva, ai non addetti, per lo più la sua declinazione di stampo biologico; a partire da quella data si è trasferito e diffuso nel campo del diritto: del bambino, a proteggere la necessità di un rapporto continuativo con entrambi i genitori; e dei genitori, a tutelare la possibilità di esercitare il ruolo di padre e di madre.

Il passaggio dalla “scontata naturalità” di una condizione (la facoltà di fare, in egual misura, il padre e la madre e l'esserne, in egual misura, figlio), alla necessità di disciplinare e tutelare giuridicamente tale “naturalità”, racconta da sé il cambiamento. Ma, se tale ridefinizione prendeva allora le mosse dal sempre più diffuso ricorso all'istituto del divorzio e all'urgenza di dare -appunto- il giusto peso a quei diritti delle parti in gioco che le separazioni mettevano (e mettono), nei fatti, frequentemente in discussione; oggi, per una di quelle obversioni tipiche del post-moderno, la situazione sembra completamente capovolta.

Dieci anni prima della Convenzione di New York, un film: “Kramer contro Kramer”, riscuoteva un successo mondiale (anche grazie ad alcuni facili sentimentalismi), ed apriva diffusamente il sipario su una mutazione in cui il femminile si affermava sempre più concretamente, determinando un riposizionamento del ruolo maschile.

Erano i segnali, estesamente manifesti, di una ridefinizione radicale dei ruoli che certo partiva da più lontano, ma che, proprio in quegli anni, si concretava in una serie di nuove e palpabili esigenze, con conseguenti assestamenti delle pratiche famigliari: marcata conquista, per le donne, di un’indipendenza economica che restringeva il tempo del “fare la mamma” e conseguente riqualificazione delle pratiche maschili, insieme alla spinta ad un rapporto più autentico con i figli, dismettendo gli aspetti più repressivi che ne avevano caratterizzato lo stereotipo, a favore di una gamma di sentimenti più articolata.

E’ da qui che, a mio avviso, il concetto di bigenitorialità comincia ad assumere quel senso extrabiologico che si formalizza nella Convenzione sui Diritti del Bambino, ma in questa non si arresta, e prosegue, di pari passo con le altre metamorfosi sociali, insidiando la famiglia ben al di là dell’evento separativo.

Infatti, il riconoscimento di una bigenitorialità ormai radicata nei riferimenti culturali delle famiglie e la sua conseguente tutela giuridica, non significano -purtroppo- la reale esistenza di quotidiane pratiche educative che la esemplifichino.

Ciò che in larga misura sembra essere successo, a fronte del venire meno della famiglia tradizionale, è, di fatto, la scomparsa della bigenitorialità o, meglio: mentre questa veniva acquisita come principio teorico generale, perdeva di pari passo consistenza fino a determinare, oggi, quella che i sociologi chiamano “la società senza padri”, bizzarra immagine di bigenitorialità.

Il contesto in cui si esplica il rapporto tra genitori e figli sembra, dunque, essere al centro di un processo che si polarizza su due posizioni contraddittorie, spesso autoescludentisi e, comunque, confusive: da una parte il richiamo alla bigenitorilità; dall'altra, la progressiva riduzione e svalutazione delle “naturali” e millenarie pratiche educative bigenitorialmente distinte (per quanto a volte nefaste), sintesi che sembra aver finito per salvare (almeno per ora) un solo modus operandi: quello della madre.

Per bene che vada, dunque, per le molte e legittime ragioni del nostro attuale vivere sociale, questa bigenitorialità, ha per lo più le sembianze del materno: sia quando il padre di fatto non c’è (per indolenza o incompetenza -e, sovente, entrambe insieme), sia quando veste i panni della madre .

Non è certo un caso se i più frequenti e consistenti problemi dei figli sono oggi generati da quella ossessione iperprotettiva che pare albergare nella gran parte delle famiglie e trova la sua sponda educativa nell’archetipo della mamma accogliente evirata dall’argine del padre normante. Liberandoci dell’autoritarismo, abbiamo buttato, è il caso di dirlo, il bambino insieme all’acqua sporca e, senza un argine, il fiume tende a esondare.

La centralità del ruolo materno, così come accennata, non richiama, per altro, soltanto ad una rilettura di un modello maschile che non ha ancora saputo mettersi veramente in discussione superando gli stereotipi del passato (per crearne di nuovi ed efficaci) e, nel dubbio, preferisce o sparire o sagomarsi a un ruolo non suo; ma anche all’esigenza di una ricalibrazione del modello materno che, per necessità o legittimo riscatto, finisce per impossessarsi d’ogni spazio di intervento.

In questo contesto così articolato, la bigenitorialità si attesta, al di là di qualsivoglia naturalità o diritto, come una conquista culturale che, paradossalmente, fatica ad attuarsi soprattutto nelle famiglie unite, dove cioè la “normale” configurazione post-moderna dei ruoli non obbliga ad una riflessione in questo senso.

Culturalmente abiurato, e per fortuna, il vetusto padre-padrone, il maschile sembra faticare a ricavarsi un ruolo autentico e personale che non sia sagomabile al femminile o non si esautori nel semplice cambiare un pannolino, andare al parco coi figli, cucinare o lavare i piatti; bensì capace di immaginarsi quale artefice di un cambiamento generativo in un mondo estremamente differente da quello che, i maschi stessi, hanno disegnato per millenni.

Svuotato nelle sue dinamiche tradizionali, alla ricerca di nuove e possibili identità, il ruolo genitoriale, quando non è assunto quasi esclusivamente dal femminile per virtuale parricidio o abdicazione , al femminile finisce per riferirsi per linguaggi, comportamenti, visioni. Sia in un caso che nell’altro, potremmo dunque parlare di: “monogenitorialità”.

Ed ecco allora l’obversione.

E’, infatti, proprio laddove la crisi famigliare irrompe che papà e mamma frequentemente trovano (possono trovare, se ben accompagnati) l’occasione per mettere in discussione costruttiva e propositiva la loro genitorialità, conquistando un apogeo che la normale routine della vita familiare rischia di negare. Il che non vuol essere uno sprono al divorzio, né significa che le famiglie separate siano “migliori”; dovrebbe invece farci riflettere rispetto alla mancanza di un’educazione alla genitorialità che oggi pare diventare sempre più indispensabile e che solo nell’inciampo della crisi coniugale, può trovare l’occasione di riscoprirsi.

Da qui l’importanza della mediazione e di questo libro che bene la illustra, proprio addentrandosi nel fondamentale campo della relazione coi figli e del come affrontare, con loro, il discorso della separazione; non solo nel minuto spazio della tragica rivelazione, ma tanto più in quel tempo potenzialmente esiziale che è il prosieguo della vita da separati trasformandolo -appunto- nell'opportunità di costruire o ritrovare una genitorialità perduta o mai rivelata, nell'attesa che tale necessità irrompa anche nelle famiglie unite.

Abdicare all'amore

Essere genitore è un evento naturale che si configura nel momento in cui, ovviamente, si concepisce un figlio; fare il genitore è, invece, tutt'altra cosa, e non è raro che, in una situazione di separazione, si presentino condizioni nelle quali uno o entrambi i genitori tendano ad abdicare al loro ruolo.

E' proprio in questi casi che la figura "super partes" del mediatore prende una parte precisa: quella del minore, di cui cerca di farsi carico personalmente per tutelarlo.

Questo è il caso di specie che, insieme all'avvocato Teresa Laviola, abbiamo provato a restituire proseguendo il nostro Osservatorio su "Il Sole 24 Ore".

Vogliamo così aprire, con maggiore forza di quanto forse non si sia fatto sinora, un tema assolutamente intrinseco all'amore di coppia: quello dell'amore per i figli, un amore spesso -ahinoi- alla mercé degli sbalzi d'umore, delle crisi e dei movimenti tellurici dell'amore di coppia da cui è stato generato.

Diritto 24 - Il sole 24 Ore: Osservatorio sulla Mediazione Familiare.
Continua a leggere qui...
Essere genitore è un evento naturale che si configura nel momento in cui, ovviamente, si concepisce un figlio; fare il genitore è, invece, tutt'altra cosa, e non è raro che, in una situazione di separazione, si presentino condizioni nelle quali uno o entrambi i genitori tendano ad abdicare al loro ruolo.

E' proprio in questi casi che la figura "super partes" del mediatore prende una parte precisa: quella del minore, di cui cerca di farsi carico personalmente per tutelarlo.

Questo è il caso di specie che, insieme all'avvocato Teresa Laviola, abbiamo provato a restituire proseguendo il nostro Osservatorio su "Il Sole 24 Ore".

Vogliamo così aprire, con maggiore forza di quanto forse non si sia fatto sinora, un tema assolutamente intrinseco all'amore di coppia: quello dell'amore per i figli, un amore spesso -ahinoi- alla mercé degli sbalzi d'umore, delle crisi e dei movimenti tellurici dell'amore di coppia da cui è stato generato.

Diritto 24 - Il sole 24 Ore: Osservatorio sulla Mediazione Familiare.
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Ritessere emozioni costruttive

"[...] L'impostazione originaria della mediazione familiare vorrebbe il mediatore strettamente vincolato ad accompagnare la coppia in crisi negli articolati passaggi della separazione o del divorzio, nutrito dell'illusione che la condizione delle parti che giungono nel suo studio sia scevra da qualsivoglia perplessità rispetto alla necessità di terminare definitivamente la loro relazione.

La crisi che la coppia porta nel setting della mediazione è, invece, sempre carica di molteplici istanze, quasi mai esplicite e non esclusivamente circoscrivibili entro l'obiettivo della separazione.

La volontà di separarsi, persino laddove..."

Diritto 24 - Il sole 24 Ore: Osservatorio sulla Mediazione Familiare. 
Continua a leggere qui il nuovo articolo di Massimo Silvano Galli e Teresa Laviola

(permalink):
http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/dirittoCivile/famiglia/2014-05-12/ritessere-emozioni-costruttive-mediazione-165631.php
"[...] L'impostazione originaria della mediazione familiare vorrebbe il mediatore strettamente vincolato ad accompagnare la coppia in crisi negli articolati passaggi della separazione o del divorzio, nutrito dell'illusione che la condizione delle parti che giungono nel suo studio sia scevra da qualsivoglia perplessità rispetto alla necessità di terminare definitivamente la loro relazione.

La crisi che la coppia porta nel setting della mediazione è, invece, sempre carica di molteplici istanze, quasi mai esplicite e non esclusivamente circoscrivibili entro l'obiettivo della separazione.

La volontà di separarsi, persino laddove..."

Diritto 24 - Il sole 24 Ore: Osservatorio sulla Mediazione Familiare. 
Continua a leggere qui il nuovo articolo di Massimo Silvano Galli e Teresa Laviola

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Unlove Tour: Mapello

Venerdì 11 aprile 2014. presso il centro NoiMediamo di Mapello (Bg), ho avuto il piacere di presentare il libro "L'Amore alla Fine dell'Amore" da cui -come ormai i lettori ben sanno- prende abbrivio questo blog.

Ancora una volta è stata l'occasione per riflettere sugli amori contemporanei, le loro crisi e i loro rimedi, alla luce delle ormai centinaia di esperienze cliniche maturate non solo con le coppie in crisi, ma anche -più genericamente- con le famiglie, che pure da coppie sono formate e le cui difficoltà con i figli non sono spesso esenti da problematiche che, invece, riguardano la coppia.


Ciò significa che per comprendere il campo del "discorso sull'amore" dobbiamo, a mio avviso, allargare le nostre riflessioni al contesto epocale in cui viviamo che, a mio avviso, possiamo ugualmente definire: “dell'amore alla fine dell'amore”, denunciando cioè come l'amore, almeno per come lo conosciamo e pratichiamo, è arrivato oggi al suo capolinea e necessita quindi di una riconfigurazione che ci aiuti meglio a comprendere cosa è diventato e come poterne adeguatamente fruire.

In questa indagine oltre i confini della crisi di coppia in quanto tale, molte cose vengono alla luce, cose apparentemente lontane dall'amore coniugale ma che, di fatto, lo contaminano e lo determinano.

Abbiamo già avuto modo di delineare le riflessioni scaturite lo scorso venerdì a Mapello nel post: "L'amore nel gorgo del III° Millennio" e ad esso rimandiamo per una lettura più approfondita, mentre qui a lato proponiamo un breve video con alcuni frammenti della serata.
Venerdì 11 aprile 2014. presso il centro NoiMediamo di Mapello (Bg), ho avuto il piacere di presentare il libro "L'Amore alla Fine dell'Amore" da cui -come ormai i lettori ben sanno- prende abbrivio questo blog.

Ancora una volta è stata l'occasione per riflettere sugli amori contemporanei, le loro crisi e i loro rimedi, alla luce delle ormai centinaia di esperienze cliniche maturate non solo con le coppie in crisi, ma anche -più genericamente- con le famiglie, che pure da coppie sono formate e le cui difficoltà con i figli non sono spesso esenti da problematiche che, invece, riguardano la coppia.


Ciò significa che per comprendere il campo del "discorso sull'amore" dobbiamo, a mio avviso, allargare le nostre riflessioni al contesto epocale in cui viviamo che, a mio avviso, possiamo ugualmente definire: “dell'amore alla fine dell'amore”, denunciando cioè come l'amore, almeno per come lo conosciamo e pratichiamo, è arrivato oggi al suo capolinea e necessita quindi di una riconfigurazione che ci aiuti meglio a comprendere cosa è diventato e come poterne adeguatamente fruire.

In questa indagine oltre i confini della crisi di coppia in quanto tale, molte cose vengono alla luce, cose apparentemente lontane dall'amore coniugale ma che, di fatto, lo contaminano e lo determinano.

Abbiamo già avuto modo di delineare le riflessioni scaturite lo scorso venerdì a Mapello nel post: "L'amore nel gorgo del III° Millennio" e ad esso rimandiamo per una lettura più approfondita, mentre qui a lato proponiamo un breve video con alcuni frammenti della serata.

Unlove Tour: Desio -Spazio Arden


Un'altra tappa del tour di promozione del libro "L'amore alla Fine dell'Amore" si è consumata venerdì 22 giugno a Desio (Milano), presso il poliedrico Spazio Arden (luogo del possibile).

Insieme all'amico Michel Stasi (anch'egli mediatore) abbiamo cercato di restituire alla curiosa e attenta platea, il senso più trasversale e, a mio avviso, più profondo cui rimanda il libro. 

Un senso che travalica lo specifico della mediazione familiare in quanto tale, connotandola come una delle possibili discipline atte a governare gli amori quando giungono alla loro fine o, come io prediligo, affinché non giungano alla loro fine (che non significa, come ormai i lettori sapranno, non separarsi o non divorziare), per concentrare invece lo sguardo sul vero tema di fondo che il libro propone: l'amore: L'amore contemporaneo, con tutte le insidie e le opportunità che in questo blog proviamo a snocciolare settimana dopo settimana.


Un'altra tappa del tour di promozione del libro "L'amore alla Fine dell'Amore" si è consumata venerdì 22 giugno a Desio (Milano), presso il poliedrico Spazio Arden (luogo del possibile).

Insieme all'amico Michel Stasi (anch'egli mediatore) abbiamo cercato di restituire alla curiosa e attenta platea, il senso più trasversale e, a mio avviso, più profondo cui rimanda il libro. 

Un senso che travalica lo specifico della mediazione familiare in quanto tale, connotandola come una delle possibili discipline atte a governare gli amori quando giungono alla loro fine o, come io prediligo, affinché non giungano alla loro fine (che non significa, come ormai i lettori sapranno, non separarsi o non divorziare), per concentrare invece lo sguardo sul vero tema di fondo che il libro propone: l'amore: L'amore contemporaneo, con tutte le insidie e le opportunità che in questo blog proviamo a snocciolare settimana dopo settimana.

Unlove Tour: Chiuduno

Prosegue il piccolo tour di presentazione del libro "L'Amore alla Fine dell'Amore", settimana. scorsa alla volta di Chiuduno, sempre nella bergamasca e sempre con le colleghe Savio e Marella con cui abbiamo condiviso anche la serata di Bolgare.

L'incontro, questa volta, è stato l'occasione per affrontare un altro tema fondamentale nel percorso di mediazione e, so

prattutto, nel percorso degli amori quando si avviano alla fine dell'amore: i bambini, i figli che, loro malgrado, sempre subiscono l'evento separativo.


Prosegue il piccolo tour di presentazione del libro "L'Amore alla Fine dell'Amore", settimana. scorsa alla volta di Chiuduno, sempre nella bergamasca e sempre con le colleghe Savio e Marella con cui abbiamo condiviso anche la serata di Bolgare.

L'incontro, questa volta, è stato l'occasione per affrontare un altro tema fondamentale nel percorso di mediazione e, so

prattutto, nel percorso degli amori quando si avviano alla fine dell'amore: i bambini, i figli che, loro malgrado, sempre subiscono l'evento separativo.


Unlove Tour: Bolgare


E' iniziato ieri il mio piccolo, personalissimo tour, di promozione e presentazione del libro "L'Amore alla Fine dell'Amore". 

Nel prezioso comune di Bolgare, alle porte di Bergamo, con le colleghe Erika Savio e Gloria Marella e una trentina di uditori, si è parlato di mediazione e di mediazione familiare in particolare, scoprendo, ma non è una novità, la scarsa conoscenza di questo strumento nato per disciplinare gli amori alla fine dell'amore. 

E' iniziato ieri il mio piccolo, personalissimo tour, di promozione e presentazione del libro "L'Amore alla Fine dell'Amore". 

Nel prezioso comune di Bolgare, alle porte di Bergamo, con le colleghe Erika Savio e Gloria Marella e una trentina di uditori, si è parlato di mediazione e di mediazione familiare in particolare, scoprendo, ma non è una novità, la scarsa conoscenza di questo strumento nato per disciplinare gli amori alla fine dell'amore. 

Che il modello siano le parti


Nel post di ieri: "L'utopia del cambiamento", abbiamo accennato al modello trasformativo che prende le mosse dal famoso libro di Robert Bush e Joseph Folger: "La promessa della mediazione" edito in italia da Vallecchi.

Si tratta di un'opera fondamentale che ancora oggi non smette di fare discutere i vari saputi della mediazione che, di convegno in convegno, vanno ponendosi interrogativi da concilio ecumenico. 

Come rilevavo nell'intervista rilasciata per il Virtual Mediation Lab, personalmente credo di riferirmi particolarmente al metodo trasformativo, ma con un approccio decisamente radicale.


Nel post di ieri: "L'utopia del cambiamento", abbiamo accennato al modello trasformativo che prende le mosse dal famoso libro di Robert Bush e Joseph Folger: "La promessa della mediazione" edito in italia da Vallecchi.

Si tratta di un'opera fondamentale che ancora oggi non smette di fare discutere i vari saputi della mediazione che, di convegno in convegno, vanno ponendosi interrogativi da concilio ecumenico. 

Come rilevavo nell'intervista rilasciata per il Virtual Mediation Lab, personalmente credo di riferirmi particolarmente al metodo trasformativo, ma con un approccio decisamente radicale.

Di che amore parliamo


Di che amore parliamo quando invochiamo il discorso sull'amore nel processo di mediazione familiare?

Abbiamo così abusato di questo vocabolo per farne stupide canzonette, slogan pubblicitari, inguardabili programmi tivvù, che mi viene di riflesso la spinta alla giustificazione, quasi ci si dovesse imbarazzare.

Fuor d'ogni  imbarazzo, la sovrapproduzione di significati, per lo più commerciali, che contorna la parola amore, mi obbliga tuttavia, quantomeno a una precisazione, onde non essere frainteso.

Con la parola amore non intendo introdurre nulla di melenso nelle pratiche della mediazione familiare: una mediazione, chessò, alla Moccia, per dire: o alla Bacio perugina; né tanto meno una mediazione connotata da spinte religiose di qualsivoglia spirito, con tendenza alla riconciliazione forzata in virtù di chissà quale divino precetto. 


Di che amore parliamo quando invochiamo il discorso sull'amore nel processo di mediazione familiare?

Abbiamo così abusato di questo vocabolo per farne stupide canzonette, slogan pubblicitari, inguardabili programmi tivvù, che mi viene di riflesso la spinta alla giustificazione, quasi ci si dovesse imbarazzare.

Fuor d'ogni  imbarazzo, la sovrapproduzione di significati, per lo più commerciali, che contorna la parola amore, mi obbliga tuttavia, quantomeno a una precisazione, onde non essere frainteso.

Con la parola amore non intendo introdurre nulla di melenso nelle pratiche della mediazione familiare: una mediazione, chessò, alla Moccia, per dire: o alla Bacio perugina; né tanto meno una mediazione connotata da spinte religiose di qualsivoglia spirito, con tendenza alla riconciliazione forzata in virtù di chissà quale divino precetto. 

Il grande assente

"La schiena dell'amore è l'odio, il petto dell'odio è l'amore"
Manuel Scorza

Il tema centrale che attraversa e dissemina l'opera "L'amore alla fine dell'amore", prende abrivio da una constatazione registrata in tante presenze a convegni, seminari, percorsi formativi, visioni di altrui mediazioni (familiari): l'assenza (o comunque la ridotta e imbarazza presenza) della parola "amore", del discorso sull'amore; come se ci fosse una sorta di ritrosia, una qualche forma di pudicizia ad affrontare tale argomento di fronte a un uomo e una donna che, spesso, si presentano, invece, carichi di rancore, quando non di vero e proprio odio.

Ma si può non parlare d'amore in un percorso di mediazione familiare? Si può evitare il discorso sull'amore in quel luogo che è la mediazione familiare, luogo deputato proprio a cercare di risolvere i conflitti, le paure, le fatiche di un amore che si è perduto? 

"La schiena dell'amore è l'odio, il petto dell'odio è l'amore"
Manuel Scorza

Il tema centrale che attraversa e dissemina l'opera "L'amore alla fine dell'amore", prende abrivio da una constatazione registrata in tante presenze a convegni, seminari, percorsi formativi, visioni di altrui mediazioni (familiari): l'assenza (o comunque la ridotta e imbarazza presenza) della parola "amore", del discorso sull'amore; come se ci fosse una sorta di ritrosia, una qualche forma di pudicizia ad affrontare tale argomento di fronte a un uomo e una donna che, spesso, si presentano, invece, carichi di rancore, quando non di vero e proprio odio.

Ma si può non parlare d'amore in un percorso di mediazione familiare? Si può evitare il discorso sull'amore in quel luogo che è la mediazione familiare, luogo deputato proprio a cercare di risolvere i conflitti, le paure, le fatiche di un amore che si è perduto? 

Perché questo blog


Questo blog si pone come naturale prosecuzione del libro "L'Amore alla Fine dell'Amore" da pochi giorni edito per i tipi di Firera & Liuzzo Publishing, in collaborazione con il Centro Italiano di Mediazione (CIM): un libro che, come queste pagine, riassume alcune riflessioni, conoscenze, esperienze maturate negli ultimi dieci anni sulla mediazione e sulla mediazione familiare in particolare.

In questo senso, sarà mia cura cercare di raccogliere qui tutte quelle argomentazioni e quei suggerimenti, quei materiali, quelle proposte e quelle suggestioni che possono creare un possibile continuum tra le pagine cartacee del su citato libro e queste pagine elettroniche, sempre circumnavigando questa disciplina chiamata a governare l'amore quando questo giunge alla sua fine e mostra le sue braci, a volte le sue ceneri...



Questo blog si pone come naturale prosecuzione del libro "L'Amore alla Fine dell'Amore" da pochi giorni edito per i tipi di Firera & Liuzzo Publishing, in collaborazione con il Centro Italiano di Mediazione (CIM): un libro che, come queste pagine, riassume alcune riflessioni, conoscenze, esperienze maturate negli ultimi dieci anni sulla mediazione e sulla mediazione familiare in particolare.

In questo senso, sarà mia cura cercare di raccogliere qui tutte quelle argomentazioni e quei suggerimenti, quei materiali, quelle proposte e quelle suggestioni che possono creare un possibile continuum tra le pagine cartacee del su citato libro e queste pagine elettroniche, sempre circumnavigando questa disciplina chiamata a governare l'amore quando questo giunge alla sua fine e mostra le sue braci, a volte le sue ceneri...


 
amoreCiao Copyright © 2012 by Massimo Silvano Galli