A guardia della tua solitudine


Nei post precedenti ("il mito dell'indipendenza" e "Il mito della (con)fusione") abbiamo osservato come l'amore, quando si fa con-vivente, cioè tenuto in vita, nutrito, progettato, giorno per giorno, da due persone che decidono consapevolmente di alimentario, questo amore rappresenta, per sua stessa natura, una rinuncia alla totale indipendenza, così come necessità di non precipitare in forme spersonalizzanti di dipendenza, per aprirsi, invece, con la necessaria dose di fatica e di coraggio al gioco dell'interdipendenza.

Come bene ci informa Jorge Amado per bocca di una delle sue affascinanti eroine, quella Dona Flor che ebbe contemporaneamente due mariti e tanto imparò sulle cose dell'amore ("Dona Flor e i suoi due mariti"), ognuno è prigioniero della propria individualità e l'idea che si possa essere così contigui all'Altro da potersi fondere totalmente, è una bella metafora con la quale ci trastulliamo, alla quale forse miriamo ma sapendo in cuor nostro, che mai accadrà veramente, anzi che, laddove dovesse accadere, sarebbe un vero disastro, poiché la totale coincidenza con il corpo e l'anima dell'amato non farebbe che riprodurre la nostra immagine in uno specchio incapace di qualsivoglia rifrazione se non, paradossalmente, l'immagine della fine dell'amore.

Invece, quando Teodoro, suo secondo marito, dice a Dona Flor: "Noi non ci nasconderemo mai nulla, vero? Noi ci diremo sempre tutto," la saggia Flor gli risponde: "Tutto no, Teodoro, tu non sai quale oscuro pozzo sia il cuore della gente.".

Questa posizione, un po' paradossale, che costringe l'amore a farsi continuamente elastico tra la necessità di perdersi nell'Altro (vedi il post: "Perdere se stessi") e la necessità che non accada veramente, è il compito cui ogni giorno siamo chiamati, per difendere e alimentare il nostro amore dal pericolo della crisi.

Questo pozzo oscuro che alberga in ognuno di noi, rappresenta, infatti, uno dei tratti caratteristici dell'umano: il nostro essere in perenne balia della consapevolezza di esserci e, al contempo, di non esserci stati e, un giorno, di non esserci più, che si declina in molteplici strategie di evitamento, ma anche coraggiose azioni di confronto e di superamento di questa intrinseca solitudine di cui l'amore bene rappresenta la complessità, comprendendo, più di altre manifestazioni umane: evitamento, confronto e superamento, in una perenne lotta che è tanto più feconda quanto più non ha pace.

Viene allora in mente e si comprende la splendida definizione del grande poeta Rainer Maria Rilke quando afferma che amare è "stare a guardia della solitudine altrui", che non significa, appunto, esaurirla, colmarla, riempiendo, con la nostra ingombrante presenza, il vuoto che ci connatura e su cui ognuno di noi è chiamato -invece- attivamente a lavorare (a prescindere da qualsivoglia Altro che gli sta affianco), significa, bensì: nutrirla, aiutare l'altro a com-prenderla (prenderla dentro di sé) e coltivarla (non rifuggirla), permettendole anche di sedarsi, ma senza mai precipitare nel rischio che questa solitudine scompaia.

È questa solitudine, infatti, che non solo ci spinge a cercare l'Altro, desiderandolo tanto da voler fonderci con lui nello spirito e nella carne, affinché la solitudine, almeno per un attimo, si attenui e con lei la condanna della nostra mortalità che l'alimenta ma, soprattutto, che ci spinge a cercare noi stessi, ma di questo avremo modo di riflettere nel prossimo post...

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