Nello scorso post ("A guardia della tua solitudine") abbiamo accennato alla stretta comunanza tra amore e morte nel cui alveo scorre il connaturato senso di solitudine che la nostra finitudine (la morte) alimenta e che, proprio nelle braccia dell'amore, trova un qualche lenimento.
“Io penso che l’amore vero, autentico, crei una tregua dalla morte," dice Ernest Hemingway al giovane Gill, catapultato nella Parigi degli anni Venti in uno degli ultimi film di Woody Allen ("Midnight in Paris"), "la vigliaccheria deriva dal non amare o dall'amare male, che è la stessa cosa, e quando un uomo vero e coraggioso guarda la morte dritta in faccia come certi cacciatori di rinoceronti o come Belmonte che è davvero coraggioso, è perché ama con sufficiente passione da fugare la morte dalla sua mente, finché lei non ritorna, come fa con tutti… e allora bisogna di nuovo far bene l’amore...”.
Ritorna, nelle suggestive parole di Hemingway, l'interessante interpretazione etimologica di Norman Brown secondo cui "amore" potrebbe essere declinato come "a-mors", ovvero: senza morte. Come se, in quella magica con-fusione cui l'amore istiga, sconfinando nel corpo e nell'anima dell'Altro, potessimo davvero uscire dai limiti di quell'involucro che è la nostra carne e la nostra psiche per scoprire, oltre la dogana di noi stessi, un prolungamento delle nostre vite.
Tra gli infiniti misteri dell'amore, che in questo blog stiamo cercando di esplorare facendo attenzione che rimangano tali, la morte sembra dunque occupare un posto di privilegio; anzi, forse il podio di tutti i perché sull'amore spetta proprio alla morte: amiamo perché, nel profondo di noi stessi, siamo consapevoli che un giorno moriremo e questo destino insopportabile necessita di essere curato nelle braccia di qualcuno come noi, qualcuno che vive la nostra stessa angoscia e ha altrettanto bisogno di noi per lenirla.
Ma, affinché questa cura abbia successo, come i lettori di questo blog ormai ben sanno, è necessario che l'Altro cui affidiamo la nostra angoscia e a cui chiediamo di medicarla con gli unguenti dell'amore, non si traduca, univocamente, nel rassicurante luogo della dimenticanza. È necessario, ossia, che l'Altro cui doniamo la nostra solitudine (come bene ci ricordava Rilke nel post precedente), sia capace di riempirla di quel senso di infinito che la solitudine scaccia ma, al contempo, di nutrire questa solitudine affinché non si dimentichi chi siamo e quel'è il finale che ci attende.
Un amore costruttivo e produttivo, capace di crescere prendendosi reciprocamente cura della solitudine dell'Altro, è costantemente teso tra questi due poli: lenire e ricordare la nostra finitudine. Un viaggio in cui ognuno è reciprocamente chiamato a fare esperienza di sé perdendosi negli occhi dell’Altro e, al contempo, accompagnato dall’Altro a smarrirsi in questa solitudine, sfidandosi continuamente a questo gioco in cui si vince più ci si perde e si gode nel ricominciare ogni volta, insieme, a ritrovarsi...
Poiché l'amore “è toglimento di morte (a-mors)”, l'amore è la sfida che intraprendiamo per provare in qualche modo a uscire da quel misterioso nulla che precede e succede alla vita, quel nulla che affrontiamo incarnandoci nel nostro io dal quale però dobbiamo uscire per comprendere davvero chi siamo, pro-gettandoci (direbbe Heidegger) nelle braccia dell'amore.
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