Amare, sentenziavamo qualche post or sono, significa vincere entrambi, una condizione che, tuttavia, appare paradossale per chi, come l'umano, ha attraversato la sua storia (esclusi alcuni rari sprazzi d'illuminazione) avvinghiato alla logica degli opposti e, quando annuncia un vincente, automaticamente allude a un perdente.
Concretare la paradossale possibilità di vincere entrambi necessita, dunque, di uno sforzo né scontato né indifferente, uno di quei salti mortali che ci hanno elevato dal mondo strettamente animale da cui, con tutta probabilità, questo imprinting (vincente vs perdente) abbiamo ereditato applicandolo, con quella perizia di cui solo noi siamo capaci, ad ogni relazione che l'homo sapiens sapiens intrattiene con tutto ciò che è altro da lui, compresi quegli altri che sono i suoi simili e la natura in ogni sua forma, insomma: ciò che non sono io e che mi minaccia con la sua possibilità di fare di me un perdente, spingendomi così a tentare la strada della sopraffazione che porta alla vittoria -spesso di Pirro.
La mediazione, almeno per come io la intendo e vivo, rappresenta una di quelle formule magiche per dare vita a questo paradosso e, appunto, permettere all'umano di divenire più umano, anzitutto insegnando, a partire dai suoi cuccioli, un altro modo di vivere le relazioni con i loro simili e con tutto ciò che è altro da loro, un modo che preveda la possibilità dell'amore, certo, ma che, soprattutto, mai escluda la necessità dell'accordo, intendendo con questo lemma ben di più che un'intesa o un patto, ma la sana e benefica fatica di armonizzarsi con ciò che ci circonda trovando uno o più suoni capaci di generare una sinfonia dove la bellezza possa sconfiggere rovine e distruzione che spesso il conflitto minaccia.
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