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Creare la mancanza

“L’amore è dare ciò che non si ha,” così, con le parole di Jacques Lacanconcludevamo il post precedente

Un vero e proprio paradosso, secondo quel luogo comune che vorrebbe invece l'amore come un darsi totalmente e pienamente. Ma, come abbiamo appurato ormai diverse volte in questo nostro viaggio nei labirinti dell'amore, la condizione straordinaria del paradosso è, per l'amore, la normalità, come in questo caso in cui proprio nella mancanza è possibile nutrire la pienezza e la totalità che l'amore rivendica.

Amiamo ciò che non abbiamo, a partire da quell'Altro che mai avremo proprio perché lui non siamo noi, perché il suo corpo non è il mio, perché la sua mente, per quanto a noi affine, non sarà mai la nostra.

Ma dobbiamo lottare affinché tutto ciò avvenga veramente. Dobbiamo sconfiggere la pigrizia come pure la nostra straordinaria abilità di specie di saper ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. E dobbiamo, invece, fare la necessaria fatica affinché l'abitudine all'Altro non ci faccia diventare come l'Altro, non ci faccia tanto coincidere a lui da confonderci con lui esautorando la mancanza.

Ancora un paradosso, dunque, poiché stare con l'Altro, vivere con lui, la straordinaria bellezza e opportunità di stare insieme, si traduce (o si dovrebbe tradurre) proprio in un viaggio di conoscenza in cui tanto più sappiamo dell'Altro, tanto più lo com-prendiamo, lo prendiamo in noi, facendolo nostro, tanto più si apre lo spazio della serena beatitudine del capirsi e dell'essere capiti, finanche anticipandosi... e si evade da sé, dalla propria mortale solitudine, per essere accolti dall'Altro in un immortale abbraccio che sa di infinito (vedi: "A guardia della tua solitudine").

Ma... ed ecco il paradosso, questo paradiso può trasformarsi in un inferno se, insieme alla pienezza che ci dona, non siamo in grado di provocare quella mancanza che rende possibile ricominciare ogni volta il gioco del conoscersi e del riconoscersi, se non siamo capaci di fuggire dallo scontato che ci intrappola per dare, invece, ciò che non si ha e, così, creare quel vuoto che solo rende possibile generare un nuovo pieno.

È non c’è modo di dare ciò che non si ha, di nutrire la mancanza, se non entrando nel campo dell’immaginazione.

Nutrire la mancanza significa, infatti, spostarsi nello spazio dell’ipotetico, del potenziale, di ciò che non c’è ma avrebbe potuto o potrebbe esserci: quel “golfo della molteplicità potenziale” lo definisce Italo Calvino (1988), che è indispensabile per qualsiasi forma di conoscenza, figuriamoci per quella conoscenza senza conoscenza che è la relazione amorosa.

Amare dunque, dovrebbe prevedere la costruzione di quello spazio in cui l'immaginazione trionfa sull'intelligenza, compito certo non facile in questo nostro tempo che proprio sull'intelligenza e sulle modalità di indagine del raziocinio ha scavato le sue fondamenta (e, con gran probabilità, la sua fossa) abbandonando quasi totalmente la sapienza dell’immaginazione.

Eppure, nell'intricato gomitolo della complessità umana, non c’è luogo come l’amore in cui l’immaginazione sia più necessaria e pertinente e dove l’intelligenza mostri, invece, tutta la sua inutilità. Ritorna allora in mente la riflessione di Kahlil Gibran, più volte citata in questo blog, in cui il grande poeta afferma che ognuno di noi ama sempre due persone: l'una creata dalla sua immaginazione e l'altra che deve ancora nascere.

Sono queste due entità mancanti che nell'amore vanno continuamente cercate nell'Altro e rappresentate da noi per l'Altro, con l’aiuto della nostra immaginazione affinché l’Altro in esse si conosca o si disconosca, compiendo comunque un tragitto oltre ogni ristretto sé, passando, cioè, da una concezione statica dell’amore come qualcosa di dato, ad una elaborazione dell'amore come azione che inventa e crea scenari di passione.

“L’amore è dare ciò che non si ha,” così, con le parole di Jacques Lacanconcludevamo il post precedente

Un vero e proprio paradosso, secondo quel luogo comune che vorrebbe invece l'amore come un darsi totalmente e pienamente. Ma, come abbiamo appurato ormai diverse volte in questo nostro viaggio nei labirinti dell'amore, la condizione straordinaria del paradosso è, per l'amore, la normalità, come in questo caso in cui proprio nella mancanza è possibile nutrire la pienezza e la totalità che l'amore rivendica.

Amiamo ciò che non abbiamo, a partire da quell'Altro che mai avremo proprio perché lui non siamo noi, perché il suo corpo non è il mio, perché la sua mente, per quanto a noi affine, non sarà mai la nostra.

Ma dobbiamo lottare affinché tutto ciò avvenga veramente. Dobbiamo sconfiggere la pigrizia come pure la nostra straordinaria abilità di specie di saper ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. E dobbiamo, invece, fare la necessaria fatica affinché l'abitudine all'Altro non ci faccia diventare come l'Altro, non ci faccia tanto coincidere a lui da confonderci con lui esautorando la mancanza.

Ancora un paradosso, dunque, poiché stare con l'Altro, vivere con lui, la straordinaria bellezza e opportunità di stare insieme, si traduce (o si dovrebbe tradurre) proprio in un viaggio di conoscenza in cui tanto più sappiamo dell'Altro, tanto più lo com-prendiamo, lo prendiamo in noi, facendolo nostro, tanto più si apre lo spazio della serena beatitudine del capirsi e dell'essere capiti, finanche anticipandosi... e si evade da sé, dalla propria mortale solitudine, per essere accolti dall'Altro in un immortale abbraccio che sa di infinito (vedi: "A guardia della tua solitudine").

Ma... ed ecco il paradosso, questo paradiso può trasformarsi in un inferno se, insieme alla pienezza che ci dona, non siamo in grado di provocare quella mancanza che rende possibile ricominciare ogni volta il gioco del conoscersi e del riconoscersi, se non siamo capaci di fuggire dallo scontato che ci intrappola per dare, invece, ciò che non si ha e, così, creare quel vuoto che solo rende possibile generare un nuovo pieno.

È non c’è modo di dare ciò che non si ha, di nutrire la mancanza, se non entrando nel campo dell’immaginazione.

Nutrire la mancanza significa, infatti, spostarsi nello spazio dell’ipotetico, del potenziale, di ciò che non c’è ma avrebbe potuto o potrebbe esserci: quel “golfo della molteplicità potenziale” lo definisce Italo Calvino (1988), che è indispensabile per qualsiasi forma di conoscenza, figuriamoci per quella conoscenza senza conoscenza che è la relazione amorosa.

Amare dunque, dovrebbe prevedere la costruzione di quello spazio in cui l'immaginazione trionfa sull'intelligenza, compito certo non facile in questo nostro tempo che proprio sull'intelligenza e sulle modalità di indagine del raziocinio ha scavato le sue fondamenta (e, con gran probabilità, la sua fossa) abbandonando quasi totalmente la sapienza dell’immaginazione.

Eppure, nell'intricato gomitolo della complessità umana, non c’è luogo come l’amore in cui l’immaginazione sia più necessaria e pertinente e dove l’intelligenza mostri, invece, tutta la sua inutilità. Ritorna allora in mente la riflessione di Kahlil Gibran, più volte citata in questo blog, in cui il grande poeta afferma che ognuno di noi ama sempre due persone: l'una creata dalla sua immaginazione e l'altra che deve ancora nascere.

Sono queste due entità mancanti che nell'amore vanno continuamente cercate nell'Altro e rappresentate da noi per l'Altro, con l’aiuto della nostra immaginazione affinché l’Altro in esse si conosca o si disconosca, compiendo comunque un tragitto oltre ogni ristretto sé, passando, cioè, da una concezione statica dell’amore come qualcosa di dato, ad una elaborazione dell'amore come azione che inventa e crea scenari di passione.

Il Gioco dell'Amore: "Travestirsi"

Affinché i diversi li-miti dell'amore che abbiamo potuto osservare nei post precedenti (e che tutti, in un modo o nell'altro, subiamo) permangano nell'ambito del mito e riducano la loro potenza limitante, diventando (anzi) una possibile risorsa, dobbiamo ancora una volta rivolgerci al mondo del gioco: abbassare le nostre pretese razionali e darci con spontanea elasticità alle innumerevoli possibilità di incontro con l'Altro e le sue infinite sfaccettature che solo il giocare (to play, jouer, recitare...) sa restituire.

Con consapevole abbandono, lasciamo dunque che l'Altro che amiamo trovi in noi non solo l'amante, il marito, la moglie, ma anche l'amico fraterno con cui confidarsi: colui che per primo cerchiamo quando abbiamo bisogno di conforto, colui a cui donare la nostra vera intimità, che non è il nostro corpo nudo, ma il meglio e il peggio di noi che la nostra più profonda solitudine disvela.

Lasciamo che l'Altro riconosca il nostro essergli madre, suo primo oggetto d'amore, ricreando per lui e per noi la paradisiaca intimità dell'infanzia, quella in cui il bambino percepisce tratti sconnessi di colei che l'ha dato al mondo: la voce, il profumo, il seno, la pelle... E, ugualmente, facciamo sì che l'Altro che amiamo riconosca in noi la forza, la responsabilità, la sicurezza e l'autorevolezza del padre. Non deludiamo il suo e il nostro bisogno di essere accolti, ma anche guidati: capiti,  ma anche educati. Giochiamo ad indossare per l'Altro il travestimento in cui, proprio perché non ci riconosce, possa ri-conoscersi, conoscersi nuovamente. E accettiamo che l'Altro faccia lo stesso con noi.

Amante, amico, padre, madre, fratello, sorella... tutti questi ruoli devono essere vestiti e rappresentati da ognuno dei partner sul proscenio di ogni commedia d'amore: con intelligenza, fantasia e equilibrio, ossia prestando la necessaria attenzione affinché nulla divenga né eccessivo, né imposto, né esagerato, e neppure scarso o assente. È, infatti, prestando attenzione affinché il gioco sia realmente tale, in cui tutti questi ruoli siano intercambiabili, con italocalvina leggerezza, nel contesto e nel tempo, che le differenze diventano energia vitale per la sana crescita d'ogni relazione d'amore.

S tratta, ancora una volta, di una spinta che funziona e agisce in modo spontaneo fintanto che l'Altro rimane l'essere più o meno sconosciuto di cui ci siamo innamorati; quell'Altro che, durante le prime fasi dell'innamoramento, è ancora "tutto da scoprire" e ci eccita e ci sorprende, ci seduce con quei travestimenti che gli vengono naturali (anche perché, probabilmente, travestimenti non sono), e allora ci lasciamo trascinare da questo bellissimo gioco, travestendoci a nostra volta per lui.

Poi però qualcosa accade: spesso, il magico gioco, si inceppa e, con una progressione direttamente proporzionale al perdurare della relazione, perde colpi.

In un attimo (o un secolo, poco importa, quando accade sembra sempre un attimo) quei travestimenti che l'Altro metteva in scena e che tanto ci facevano vibrare, ecco che appaiono scontati, noiosi, a volte persino fastidiosi. Ma è proprio a questo punto, se la voglia e le energie ancora ci sorreggono, che diventa necessario sostituire al gioco spontaneo dei travestimenti, il gioco artificiale dei travestimenti, passando, cioè, dalla lettura della favola del principe azzurro, alla messa in scena del principe azzurro e di tutte le altre storie che ancora possono farci galoppare con la fantasia creando, insieme all'Altro, la perturbante felicità che ogni storia amore deve ricercare.
Affinché i diversi li-miti dell'amore che abbiamo potuto osservare nei post precedenti (e che tutti, in un modo o nell'altro, subiamo) permangano nell'ambito del mito e riducano la loro potenza limitante, diventando (anzi) una possibile risorsa, dobbiamo ancora una volta rivolgerci al mondo del gioco: abbassare le nostre pretese razionali e darci con spontanea elasticità alle innumerevoli possibilità di incontro con l'Altro e le sue infinite sfaccettature che solo il giocare (to play, jouer, recitare...) sa restituire.

Con consapevole abbandono, lasciamo dunque che l'Altro che amiamo trovi in noi non solo l'amante, il marito, la moglie, ma anche l'amico fraterno con cui confidarsi: colui che per primo cerchiamo quando abbiamo bisogno di conforto, colui a cui donare la nostra vera intimità, che non è il nostro corpo nudo, ma il meglio e il peggio di noi che la nostra più profonda solitudine disvela.

Lasciamo che l'Altro riconosca il nostro essergli madre, suo primo oggetto d'amore, ricreando per lui e per noi la paradisiaca intimità dell'infanzia, quella in cui il bambino percepisce tratti sconnessi di colei che l'ha dato al mondo: la voce, il profumo, il seno, la pelle... E, ugualmente, facciamo sì che l'Altro che amiamo riconosca in noi la forza, la responsabilità, la sicurezza e l'autorevolezza del padre. Non deludiamo il suo e il nostro bisogno di essere accolti, ma anche guidati: capiti,  ma anche educati. Giochiamo ad indossare per l'Altro il travestimento in cui, proprio perché non ci riconosce, possa ri-conoscersi, conoscersi nuovamente. E accettiamo che l'Altro faccia lo stesso con noi.

Amante, amico, padre, madre, fratello, sorella... tutti questi ruoli devono essere vestiti e rappresentati da ognuno dei partner sul proscenio di ogni commedia d'amore: con intelligenza, fantasia e equilibrio, ossia prestando la necessaria attenzione affinché nulla divenga né eccessivo, né imposto, né esagerato, e neppure scarso o assente. È, infatti, prestando attenzione affinché il gioco sia realmente tale, in cui tutti questi ruoli siano intercambiabili, con italocalvina leggerezza, nel contesto e nel tempo, che le differenze diventano energia vitale per la sana crescita d'ogni relazione d'amore.

S tratta, ancora una volta, di una spinta che funziona e agisce in modo spontaneo fintanto che l'Altro rimane l'essere più o meno sconosciuto di cui ci siamo innamorati; quell'Altro che, durante le prime fasi dell'innamoramento, è ancora "tutto da scoprire" e ci eccita e ci sorprende, ci seduce con quei travestimenti che gli vengono naturali (anche perché, probabilmente, travestimenti non sono), e allora ci lasciamo trascinare da questo bellissimo gioco, travestendoci a nostra volta per lui.

Poi però qualcosa accade: spesso, il magico gioco, si inceppa e, con una progressione direttamente proporzionale al perdurare della relazione, perde colpi.

In un attimo (o un secolo, poco importa, quando accade sembra sempre un attimo) quei travestimenti che l'Altro metteva in scena e che tanto ci facevano vibrare, ecco che appaiono scontati, noiosi, a volte persino fastidiosi. Ma è proprio a questo punto, se la voglia e le energie ancora ci sorreggono, che diventa necessario sostituire al gioco spontaneo dei travestimenti, il gioco artificiale dei travestimenti, passando, cioè, dalla lettura della favola del principe azzurro, alla messa in scena del principe azzurro e di tutte le altre storie che ancora possono farci galoppare con la fantasia creando, insieme all'Altro, la perturbante felicità che ogni storia amore deve ricercare.
 
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