Il peggio di me

L'idea di una vita di coppia, di un amore condiviso giorno per giorno, che sia tutta, come si usa dire (e sperare): "rose e fiori" è, come abbiamo cercato di descrivere nel post precedente, un'idea non solo fuorviante ma anche compromettente l'amore stesso e le sue possibili spinte rivoluzionarie, quelle spinte che ci obbligano ad un continuo ri-conoscimento, che ci mettono, cioè, nella possibilità (che proprio nell'incontro con l'Altro-diverso-da-me diviene feconda) di ri-conoscermi continuamente; una possibilità che coincide più con l'immagine del labirinto (coi suoi inciampi, le sue strade sbarrate, il suo smarrirsi e ritrovarsi, i suoi Minotauri da affrontare e sconfiggere) che non con quella della prateria sconfinata dove galoppare liberi da qualsivoglia impedimento.

C’è, in questo senso, una sequenza del film “Vi presento Joe Black” ("Meet Joe Black" regia di Martin Brest, USA 1998), remake del meno noto “La morte va in vacanza” (“Death Takes a Holiday”, regia di Mitchell Leisen, USA 1934) che vale quanto una seduta terapeutica. Vi si vede il bel Brad Pitt (interpreta la morte che, scesa sulla terra per prelevare un’anima, inciampa, suo malgrado, in una donna e se ne innamora) che, desideroso di conoscere le dinamiche dell’amore, chiede consiglio ad un amico mortale.

“Tu ami Elison, vero?” chiede la morte all’amico.
“Sì, è vero,” risponde quello.
“Ma Elison ti ama?” prosegue l’interrogatorio.
L’amico fa un cenno d'assenso col campo.
“E come fai a saperlo?” chiede la morte.
C’è un attimo di silenzio, l’uomo guarda la morte negli occhi e poi dice sereno:
“Perché conosce la parte peggiore di me e le sta bene.”.

Conosce la parte peggiore di me e le sta bene…

Quanti innamorati potrebbero dire lo stesso? Conosciamo davvero l’Altro anzi, meglio: siamo davvero disposti a conoscerlo, cioè ad aiutarlo a conoscersi, a ri-conoscersi, fino a fare emergere la sua parte peggiore, l’ombra junghiana che tutti ci pervade, per poi soccorrerlo nel contenerla, nel governarla, nel riattraversarla creativamente e costruttivamente?

Perché l’amore, forse, è proprio questa cosa: confessare all'Altro ciò che non siamo capaci di dire nemmeno a noi stessi, confessare la nostra più profonda solitudine, e, attraverso il suo accoglimento, imparare insieme non solo chi siamo davvero, ma anche, e forse soprattutto, chi potremmo essere; affinché poi, come conclude l’amico mortale spiegando alla morte il senso delle sue parole: “[…] Si è liberi, liberi di amarsi l’un l’altro totalmente, completamente… solo: senza paura.”.

Come sembra cozzare questa definizione dell’amore col "tutto rose e fiori" che, invece, troppo spesso, ci fanno credere, suggestionandoci coi vari (li)miti dell'amore: il mito della libertà che solletica il contemporaneo parossismo individualista, il mito dall'indipendenza che ci protegge dalla paura dell’Altro e ci fa stare tanto guardinghi da diventare sterili, ognuno stretto (e costretto) alle proprie piccole sicurezze, ma anche il mito della con-fusione che ospita la nostra incapacità di configgere senza sconfiggere...

“Pietà per coloro che si sposano per essere felici. Pietà per coloro che, per disgrazia, saranno troppo a lungo contenti di quella felicità anodina che si è loro augurata nel giorno delle nozze -troppo a lungo amanti dell'amore inoffensivo delle lune di miele! Pietà per coloro che saranno troppo a lungo fotogenici e presentabili come il giorno delle nozze! Sono fredde le gabbie di vetro, quando la luce delle vetrine si spegne! Il matrimonio ha per noi altre ambizioni. Il matrimonio non ci vuole presentabili, ci vuole vivi! -e ci farà perdere la faccia fino a che, sotto le nostre maschere, appariranno i nostri veri volti" (Christiane Singer, “Elogio del matrimonio, del vincolo e altre follie").

Quante coppie sono passate, passano e -ahinoi- passeranno negli studi dei terapeuti dell'amore: uomini e donne che non si sono disposti a perdere la faccia per regalare il loro vero volto a coloro che amano (come auguravamo alla coppia di amici nel post "Ti amerò per sempre in ogni per adesso") o, al contrario, perché, regalando il loro vero volto, non sono stati accolti e hanno invece trovato nell'Altro la paura e la fuga, il disimpegno, anziché il coraggio dell'accoglimento.

Vivere con l'Altro è una sfida, tanto più ardua quanto più i nostri confini relazionali si fanno prossimi e contigui. Una sfida che consta, anzitutto, nel mettere in discussione i nostri modi di pensare, di vedere e di immaginare condividendoli con l'Altro e, disposti, per l'Altro, a mutarli in un reciproco scambio di energie alteranti in cui giace la potenza di questo sentimento, ma anche la sua tragedia quando, invece di accogliere la forza contaminante dell'Altro, ci opponiamo ad essa avvertendone, anziché la bellezza, il pericolo.

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