Dopo la parentesi natalizia riprendiamo (un po' più satolli) le nostre riflessioni.
Come abbiamo osservato nel post "La schiena dell'amore è l'odio", la natura profonda di ogni relazione (con una virulenza direttamente proporzionale man mano che ci avviciniamo a quelle relazioni che chiamiamo "d'amore") è intrinsecamente segnata, lo si avverta o meno, dalla minaccia che l'Altro rappresenta per l'equilibrio della mia identità. Più l'Altro è per me importante, più la sua presenza di corpo-diverso-da-me-che-mi-attrae costituisce un potenziale pericolo per ciò che sono o, meglio, per ciò che credo di essere.
Questa differenza, tra ciò che sono e ciò che credo di essere, è assai importante per la riflessione che voglio condurre. L'identità di ciascuno, infatti, non è mai univoca ma sempre determinata dai differenti sguardi coi quali l'Altro ci osserva nei molteplici contesti in cui ci presentiamo e a seconda delle maschere o, per dirla in altro modo, dei filtri sociali con cui ci rappresentiamo.
E' di tutta evidenza che noi non siamo tendenzialmente gli stessi quando, chessó, andiamo a un colloquio di lavoro e quando beviamo una birra con il nostro migliore amico, e l'idea che uno (quello davanti alla birra) sia più vero dell'altro è un luogo comune assai pericoloso che non rende giustizia alla complessa vicenda della nostra identità e rischia, invece, di sviarci da una sua consapevole e costruttiva presa in carico.
La nostra identità, infatti, é da considerare come qualcosa in perenne movimento, qualcosa che ci fa essere al contempo sempre noi stessi e sempre qualcos'altro. Questo perché l'identità non é un oggetto unicamente autoreferenziale, partorito, per così dire, davanti allo specchio, bensì un oggetto relazionale la cui costruzione é sempre partecipata dal mondo e nel mondo.
L'idea di essere più veri in determinate situazioni, tendenzialmente le più intime, oltre a restituire, appunto, un concetto di identità parziale, che vorrebbe ignorare quanto siamo profondamente noi stessi in ogni situazione, anche in quelle più "recitate", impedisce, pericolosamente, quella sana apertura della nostra identità all'Altro che é alla base di ogni processo di crescita e di arricchimento e che abbiamo già avuto modo di accennare nel post "L'Altro come maestro".
Credere che solo quando siamo con l'Altro che amiamo o, comunque, in una situazione di grande e coinvolgente intimità, la nostra identità prorompa in tutta la sua più sincera essenza, presenta il rischio fortissimo di impedire all'Altro di compiere la sua fondamentale azione alterante, il suo naturale compito evolutivo che consta nel penetrare con il suo sguardo la nostra identità proprio per denunciare ciò che non siamo o che di noi non vediamo e provocare questo non essere donandogli l'opportunità di diventare.
Accusiamo l'Altro di non apprezzare quanto con lui ci lasciamo andare presentandoci più "veri" che altrove e ci risulta difficile capire perché fatichi a vedere la bellezza e lo sforzo di questa "verità" che crediamo di donare. Ma, tanto più non comprendiamo perché l'Altro non apprezzi la nostra fatica, quanto più arrocchiamo la nostra identità impedendo l'accesso alla forza alterante dell'Altro.
Il terremoto emotivo che ci sconvolge quando ci innamoriamo e ci fa vagare come ubriachi faticando a riconoscerci, é il segno di questa potenza alterante che in quel frangente é inarrestabile e ci travolge senza che si riesca a mettervi argine, ma che dovremmo imparare a non contrastare e a non rifiutarla, soprattutto quando le scosse telluriche si sono assestate.
Credendo di presentare la nostra vera identità, a volte imponendola con forza, invece, annulliamo o riduciamo la disponibilità ad accogliere tutte le altre identità che siamo e che potremmo essere in quello spazio prossimale della scoperta che passa attraverso la perdita di sé di cui l'Altro è naturale detonatore e in cui risiede la vera energia dell'amore.
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