Il caso della donna che dormiva sul tappeto

Proseguendo il nastro osservatorio sulla mediazione famigliare e, in particolare, questo primo tratto di sentiero votato alla perlustrazione del conflitto, insieme all'avvocato Teresa Laviola vogliamo restituire oggi un particolare caso in cui il conflitto mostra tutta la sua ambiguità e, anche laddove sembra distribuire con apparente chiarezza ragioni e colpe, se ben guardato, restituisce invece tutta la sua natura relativista, palesando quella condizione tipica della mediazione in cui diviene impossibile (oltre che inutile) distribuire i torti ed è invece necessario abbandonarsi al flusso delle ragioni e delle emozioni costruttive. Ecco, dunque, il caso di specie.

Quando i coniugi, che chiameremo Franca e Matteo, arrivarono in studio fu subito chiaro, ancora prima di iniziare, la grande distanza che da tempo li separava: lei una donna trasandata, di un’età indistinguibile e chiaramente torturata da una sofferenza che non faceva nulla per nascondere; lui -invece- un uomo fin troppo curato, dall'aspetto ostentatamente giovanile, con una smorfia di beffarda indifferenza e un olezzo di profumo che ne anticipava l’arrivo e permaneva in studio anche ore dopo la loro dipartita. Quando, poi, iniziarono a raccontare la loro storia, la distanza si fece anche più palese. Infatti, dalla nascita della figlia (Marta, 14 anni), i due non avevano più avuto alcun tipo di rapporto sessuale, mentre il resto della relazione si era ridotta a pure comunicazioni di servizio. 

Franca accusava Matteo di averla da sempre maltrattata, fin dalla prima notte di nozze, che lui aveva trascorso al casinò, per una luna tutt'altro che di miele. Matteo, naturalmente, respingeva ogni accusa, sostenendo, invece, la subdola malvagità manipolatrice di Franca che era arrivata a dormire per anni sul tappeto accanto al letto matrimoniale: “Per non disturbarti quando mi dovevo alzare per la bambina,” sosteneva lei. “Per farmi sentire in colpa con i tuoi vittimismi, i tuoi piagnistei,” diceva, invece, lui.

A un certo punto, Matteo aveva detto basta e i due, si erano costruiti una loro vita da separati in casa, anzi: Matteo, se l'era costruita, perché Franca, animata da un forte spirito religioso, era rimasta paralizzata in un limbo di sola sofferenza: impossibilità anche solo a pensare al divorzio e, men che meno, a cercare fuori dal matrimonio un qualche tipo di felicità alternativa.

Così avevano passato gli ultimi quattordici anni, poi era scoppiato il bubbone: Marta aveva scoperto il padre intrattenersi su qualche chat erotica, cosa che l’aveva gettata in una profonda crisi (tanto da non voler più parlargli), e poi aveva costretto (ob torto collo?) Franca a prendere provvedimenti “salva faccia” e a spedire Matteo fuori casa. La separazione era stata, tuttavia, temporanea perché, poco dopo l'uscita del marito, un tumore al seno aveva gettato Franca nel gorgo della chemioterapia e, pensava Matteo: “Obbligato me a tornare.”. Quando arrivarono in studio Franca aveva appena finito il sesto e ultimo ciclo di chemio, dopo la dovuta mastectomia.

Nei casi come questo, ciò che maggiormente rischia di minacciare il successo della mediazione, è la tentazione, per quanto legittima, di pensare che l’uno o l'altro dei contendenti sia in qualche modo la vittima e che, quindi, possa rivendicare un qualche tipo di ragione. Tuttavia, come ci ricordano gli amici di Palo Alto, uno stesso evento comunicativo può avere molteplici possibilità interpretative a seconda di come lo si guardi e del potere che ha su quella relazione chi la guarda e la giudica. Mai come nelle relazioni di coppia, poi, ogni comunicazione si configura in un vicendevole stimolarsi e contaminarsi che, come in questo caso, impedisce di definire chi ha ragione e chi torto. Per questo il mediatore deve guardarsi bene dalla tentazione di fare il giustiziere. 

Egli, infatti, non disciplina la giustizia, come a volte si tende a confondere. Il mediatore non è Zorro ma, semmai, Bernardo, il servo muto di Zorro che, con il suo silenzio, accompagna le parti a trovare una giustizia equa per entrambi. Nei casi come questo, allora, dove il conflitto non solo è elevato, ma con la sua persistenza ha costituito un modus pensandi in cui ogni azione dell’Altro finisce inevitabilmente per cristallizzarsi nelle condizioni che promuovono uno scontro sterile, la prima manovra da farsi non è quella di sedarlo, ma -paradossalmente- di promuoverlo, esasperandone gli aspetti irrazionali, fino a palesarlo in tutto il suo non-senso, per poi, in un secondo momento, aiutare le parti a definire le aree realmente negoziabili dei reciproci contrasti.


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