Affinché i diversi li-miti dell'amore che abbiamo potuto osservare nei post precedenti (e che tutti, in un modo o nell'altro, subiamo) permangano nell'ambito del mito e riducano la loro potenza limitante, diventando (anzi) una possibile risorsa, dobbiamo ancora una volta rivolgerci al mondo del gioco: abbassare le nostre pretese razionali e darci con spontanea elasticità alle innumerevoli possibilità di incontro con l'Altro e le sue infinite sfaccettature che solo il giocare (to play, jouer, recitare...) sa restituire.
Con consapevole abbandono, lasciamo dunque che l'Altro che amiamo trovi in noi non solo l'amante, il marito, la moglie, ma anche l'amico fraterno con cui confidarsi: colui che per primo cerchiamo quando abbiamo bisogno di conforto, colui a cui donare la nostra vera intimità, che non è il nostro corpo nudo, ma il meglio e il peggio di noi che la nostra più profonda solitudine disvela.
Lasciamo che l'Altro riconosca il nostro essergli madre, suo primo oggetto d'amore, ricreando per lui e per noi la paradisiaca intimità dell'infanzia, quella in cui il bambino percepisce tratti sconnessi di colei che l'ha dato al mondo: la voce, il profumo, il seno, la pelle... E, ugualmente, facciamo sì che l'Altro che amiamo riconosca in noi la forza, la responsabilità, la sicurezza e l'autorevolezza del padre. Non deludiamo il suo e il nostro bisogno di essere accolti, ma anche guidati: capiti, ma anche educati. Giochiamo ad indossare per l'Altro il travestimento in cui, proprio perché non ci riconosce, possa ri-conoscersi, conoscersi nuovamente. E accettiamo che l'Altro faccia lo stesso con noi.
Amante, amico, padre, madre, fratello, sorella... tutti questi ruoli devono essere vestiti e rappresentati da ognuno dei partner sul proscenio di ogni commedia d'amore: con intelligenza, fantasia e equilibrio, ossia prestando la necessaria attenzione affinché nulla divenga né eccessivo, né imposto, né esagerato, e neppure scarso o assente. È, infatti, prestando attenzione affinché il gioco sia realmente tale, in cui tutti questi ruoli siano intercambiabili, con italocalvina leggerezza, nel contesto e nel tempo, che le differenze diventano energia vitale per la sana crescita d'ogni relazione d'amore.
S tratta, ancora una volta, di una spinta che funziona e agisce in modo spontaneo fintanto che l'Altro rimane l'essere più o meno sconosciuto di cui ci siamo innamorati; quell'Altro che, durante le prime fasi dell'innamoramento, è ancora "tutto da scoprire" e ci eccita e ci sorprende, ci seduce con quei travestimenti che gli vengono naturali (anche perché, probabilmente, travestimenti non sono), e allora ci lasciamo trascinare da questo bellissimo gioco, travestendoci a nostra volta per lui.
Poi però qualcosa accade: spesso, il magico gioco, si inceppa e, con una progressione direttamente proporzionale al perdurare della relazione, perde colpi.
In un attimo (o un secolo, poco importa, quando accade sembra sempre un attimo) quei travestimenti che l'Altro metteva in scena e che tanto ci facevano vibrare, ecco che appaiono scontati, noiosi, a volte persino fastidiosi. Ma è proprio a questo punto, se la voglia e le energie ancora ci sorreggono, che diventa necessario sostituire al gioco spontaneo dei travestimenti, il gioco artificiale dei travestimenti, passando, cioè, dalla lettura della favola del principe azzurro, alla messa in scena del principe azzurro e di tutte le altre storie che ancora possono farci galoppare con la fantasia creando, insieme all'Altro, la perturbante felicità che ogni storia amore deve ricercare.
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