"No te quiero sino porque te quiero / y de quererte a no quererte llego / y de esperarte cuando no te espero / pasa mi corazón del frío al fuego. / Te quiero sólo porque a ti te quiero, / te odio sin fin, y odiándote te ruego, / y la medida de mi amor viajero / es no verte y amarte como un ciego."
Sono i versi di una stupenda poesia di Pablo Neruda ("Cento sonetti d'amore -LXVI") tornata a galla ieri mentre, durante una seduta in studio, si percorrevano, come spesso accade, le perigliose e dolorose strade di un'altro amore alla fine dell'amore.
Perché ci si innamori o perché ci si disamori é, nella gran parte dei casi, un vero mistero e, come suggeriscono le tante storie d'amore incontrare in questi anni, è bene che rimanga tale.
Tali e tante sono le confluenze che compartecipano a generare innamoramenti e disamoramenti che, cercare di snidarle, di decapitarle, di capirle, rischia solo di distruggere il mistero e, quindi, ogni sua intrinseca bellezza -compresa quella bellezza amara e, certo, dolorosa, di cui si nutrono gli amori alla fine dell'amore, la cui grazia si cela proprio nell'annunciare (a discapito di quanto riescano a credere i loro protagonisti), con la fine, comunque un nuovo inizio.
Volere capire, sfidare il mistero è, invece, paradossalmente, proprio ciò che si dovrebbe evitare: laddove l'amore persiste e, soprattutto, laddove l'amore denuncia la sua dipartita.
Tra le tante trappole che, giorno dopo giorno, prepariamo compromettendo l'ingenua felicità del mistero dell'amore o, dall'altro capo, esasperando il dolore racchiuso nel mistero del disamore, quella di voler capire "Perché?" é, infatti, tra le più frequenti, insidiose, compromettenti.
La misura dell'amore (e, quindi, anche del suo opposto), suggerisce Neruda nei suoi versi, è, invece, non vedere, amare sì, ma come un cieco. Abbandonarsi senza l'ausilio di quella cosa che chiamiamo vista al mistero dell'amore in tutte le sue forme.
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