Nella metafora che attraversa le «Mille e una notte», le storie che la bella Shahrazad racconta al sultano, altro non fanno che tentare di ripristinare un desiderio che ha perduto il senso della propria normalità e, ogni notte, dopo aver trovato appagamento, taglia la testa all’oggetto del suo godimento, le sue amanti. Shahrazad curerà il sultano e si salverà dalla sua follia proprio educandolo o rieducandolo al differimento del desiderio che, continuamente rinviato, dopo mille e una notte, ritroverà la strada della normalità.
Quando non siamo in grado di governare il desiderio, ci illumina Freud, il regno delle pulsioni, delle energie libere, prende il sopravvento, l'energia cerca allora uno sfogo immediato e non è disposta a tollerare alcun differimento della gratificazione; ed è lì che ha luogo il trauma che mette fuori uso il principio di piacere.
La felicità, il godimento, allora, consisterebbero in un desiderare rinunciando consapevolmente al raggiungimento del desiderio stesso o, meglio, nella consapevole rincorsa verso un desiderio che sappiamo irraggiungibile; come se, annullando lo stato di incessante insoddisfazione che ci assorbe nella ricerca spasmodica dell’ennesimo oggetto di godimento, ci si liberi veramente e si possa prendere coscienza di quella cosa straordinaria che è il puro piacere dell’esistenza.
Come bene scrive Peter Brooks ("Trame", Piccola Biblioteca Einaudi), è lo stesso paradosso che viviamo nella relazione con la trama narrativa: l’emozione che proviamo in ogni storia consumata divorando le pagine del libro spinti dal desiderio di conoscere cosa accadrà nella pagina successiva (sempre la prossima), non trova pace se non alla fine, in quel "the end" in cui, però, insieme alla soddisfazione del desiderio, registriamo anche la sconfitta di quello stesso desiderio definitivamente scomparso, non più producibile.
Il desiderio cerca, dunque, la sua soddisfazione spingendosi verso quell’altrove che lo attrae: la fine del libro, l’orgasmo, la felicità assoluta… ma ognuna delle soluzioni che può e sa trovare altro non sono, per lui, che una tragica condanna che ne determina la definitiva scomparsa. Così, se la vita è tale perché generata e alimentata dal desiderio, ogni volta che il desiderio si esaudisce è come se perdessimo quell’energia vitale che nutre l’esistenza -per questo siamo costretti a rinnovare il nostro spirito desiderante cercando subito nuovi miraggi cui tendere.
In questo senso possiamo dire che il vero desiderio (il più inconscio, il più indicibile) che governa il grumo patologico che è in ognuno di noi è, di fatto, un desiderio di morte: il desiderio supremo di arrivare alla fine del nostro personalissimo libro; un desiderio che, tuttavia, quando la patologia rimane entro il recinto della apparente normalità, è quasi sempre controbilanciato da una spinta uguale e contraria che, invece di dirigerci velocemente lungo quella linea retta che porta alla sua soddisfazione, che porta al miraggio della felicità suprema, che porta al godimento assoluto, devia (o almeno ci prova) dal suo lineare destino e ci accompagna in un viaggio a zig zag, cercando, come possiamo, di rimandare il più possibile quella attrazione e quella voglia finale.
Stesso dicasi dell'amore, forma per antonomasia in cui si plasma il desiderio. Amare, dunque, a zig zag, sarebbe la ricetta: inventarsi strade, sentieri, pendii, viaggi, giochi, travestimenti, sogni, in grado di posticipare la fine (dell'amore) da cui siamo irrefrenabilmente attratti.
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