Nel post "Aretè: l'arte del ben-essere" abbiamo sostenuto con forza la necessità di superare una vetusta (per altro non più rispondente alle complesse dinamiche della contemporaneità) concezione dell'amore di coppia quale condizione naturale che fa nascere e morire passioni e sentimenti, per aprirci, invece, ad una visione arti-ficiale dove la creatività si presenta come forza in principio generante e poi rigenerante, capace governare costruttivamente l'amore, prevenendo e curando le sue possibili crisi e stimolando, comunque vada (separati o insieme), la sua intrinseca tensione al ben-essere.
A sostegno di questa tesi, semmai di un sostegno avesse bisogno, voglio qui riferire di una particolare ricerca scientifica che prova a spiegare questa mia posizione, seppur leggendola dal polo opposto.
Certo, in un mondo affrancato dal binomio scienza/verità, non sarebbe servita alcuna ricerca per comprendere che non è solo un modo di dire la millenaria associazione tra pazzia e innamoramento e che la condizione dell'innamorato si presenta davvero come assolutamente fuori dalla norma, dettata da agiti dove empatia e intuito (emisfero destro) hanno la meglio sulla ragione (emisfero sinistro) e la mente, anziché prediligere la direzione della logica, entra in uno stato transitorio teso tra due opposte direzioni il cui equilibrio instabile influenza al tempo stesso l'emozione e il pensiero.
Non scopriamo certo l'acqua calda se affermiamo che l'amore, quando esplode, trascina con sé tutto il nostro essere fin nelle fondamenta e, improvvisamente, ci troviamo catapultati in un mondo tutto sottosopra dove i pensieri, le azioni, il nostro modo di stare e muoverci ci appaiono diversi, come alterati da una lieve ubriachezza, una condizione molto vicina all'esperienza creativa in cui siamo più propensi a sviluppare le associazioni remote anziché quelle più prossime e comuni.
Questo sostengono, molto in sintesi, alcuni ricercatori dell'Università di Amsterdam (Jens Förster, Kai Epstude, e Amina Özelsel) dimostrando, con metodo scientifico (che -ahimè- tutti rassicura), ciò che l'uomo conosce da sempre: che l'amore induce -appunto- una trasformazione complessiva della persona stimolando il pensiero creativo.
Se così stanno le cose, se l'amore induce alla creatività (e l'esperienza, prima ancora che la scienza, ci dice che é proprio così), allora la creatività sarà, giocoforza, un potente viatico per l'amore, una delle condizioni prioritarie al suo restare in vita e (non mi stancherò mai di ripeterlo) a prescindere dalla continuità o meno dell'amore coniugale o di coppia.
Nutrire l'amore con dosi di creatività, dunque. Creare l'amore, inducendolo arti-ficialmente con dispositivi capaci di farci dissodare e seminare il terreno della reciproca e continua ri-conoscenza: quel darsi costruttivamente all'Altro che la creatività incalza stimolando alternative vie a ciò che é desueto, affinché si governi la naturale tendenza a ridurre noi stessi e l'Altro che "abitiamo" a qualcosa di scontato, impedendo così quel crescere insieme che é nutrimento d'ogni relazione e delle relazioni d'amore soprattutto, affinché gli amanti continuino a sperimentare, come al loro esordio, la gioiosa bellezza dell'alteritá che ci altera.
Ecco uno dei compiti primari di quella pedagogia dell'amore di coppia che in questo blog ho più volte riferito: aiutare i suoi singoli componenti a ritrovare quel sentiero creativo che, al nascere del loro amore, li aveva resi fecondi di possibilità vitali, supportarli affinché il loro amore possa essere ricreato per poi scoprire, insieme, se questo nuovo amore ha ancora la forza e l'energia per giocare nel campo della coniugalitá che fa di due io un noi o se, invece, esaurita la sua forza coniugante, si é trasformato in un amore diverso in cui, non sempre senza fatica, imparare a non cancellare l'Altro e a riconoscere, invece, la sua importante funzione nella storia di ciò che sono.
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